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«Ho fiducia nella giustizia, sono un uomo delle istituzioni. Darò il mio contributo per l’accertamento della verità». Con queste parole l’ex pubblico ministero del pool Antimafia Gioacchino Natoli ha reagito alla notizia di essere indagato per favoreggiamento della mafia e calunnia. L’accusa della procura di Caltanissetta colpisce un ex pm con la fama di duro e puro. Ed è quella di aver insabbiato un’inchiesta su mafia e appalti negli Anni Novanta. Con l’aggravante «di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra con riferimento agli interessi della stessa nel settore dell’aggiudicazione degli appalti», come si legge nell’invito a comparire come indagato che gli hanno fatto avere i pm. In una storia che intreccia quelle di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e dell’inchiesta Mafia e Appalti.

L’accusa di calunnia

Da vicepresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati mostrava la Costituzione per rivendicare l’indipendenza della magistratura all’inaugurazione dell’anno giudiziario: il premier era Silvio Berlusconi, Angelino Alfano il Guardasigilli. Poi il ruolo di pubblico ministero nel processo Andreotti. Venerdì 5 luglio Natoli dovrà rispondere alle domande degli ex colleghi di Caltanissetta sull’epoca in cui era giudice istruttore del pool antimafia di cui facevano parte anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’accusa di calunnia riguarda le “Brevi note di chiarimento” inviate il 6 febbraio 2024 ma datate gennaio in cui incolpava Damiano Galati del Centro intercettazioni telefoniche di Palermo di aver falsificato la sua firma in un ordine di smagnetizzazione di intercettazioni e di distruzione di brogliacci di un’inchiesta su mafia e appalti e sulle infiltrazioni di Cosa Nostra in Toscana. L’ordine non è stato eseguito e le bobine sono state ritrovate a Palermo.

Il favoreggiamento di Cosa Nostra

Ma l’accusa più grave è la seconda. Perché secondo Caltanissetta Natoli avrebbe agito in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco, nel frattempo deceduto, e con l’allora capitano della Guardia di Finanza Stefano Screpanti. Per favorire i mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco e i vertici del Gruppo Ferruzzi: Raoul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini. E qui la vicenda si fa articolata. L’allora pm riceve da Massa Carrara alcune carte che riguardano infiltrazioni mafiose nelle cave toscane. Apre il procedimento 3589/1991 e comincia quella che l’accusa chiama un’”indagine apparente”. Tra l’altro, richiedendo attività di intercettazioni telefoniche per soli 40 giorni e solo per una parte delle utenze segnalate per la captazione. Addirittura si accorda con Screpanti per non far trascrivere conversazioni ritenute fondamentali per le indagini.

L’indagine apparente

In quelle intercettazioni c’era la notizia della “messa a disposizione” dell’imprenditore Di Fresco al mafioso Bonura e l’interessamento per “aggiustare” un processo in cui sempre Bonura insieme a due sodali era accusato del duplice omicidio Chiazzese/Dominici. In più non avviava indagini nei confronti di altri due imprenditori considerati “a disposizione” del mafioso. Chiedendo alla fine l’archiviazione di tutta l’inchiesta senza nemmeno acquisire le altre carte di Massa Carrara. La smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci, è la ricostruzione dell’accusa, doveva servire proprio a cancellare ogni traccia delle prove emerse nell’indagine. E la storia va ad intrecciarsi con l’indagine Mafia e Appalti, la prima a collegare Cosa Nostra con l’imprenditoria e la politica. L’informativa di 956 pagine depositata dal Ros di Mario Mori svelava un comitato d’affari che gestiva le gare pubbliche in Sicilia.

Mafia e Appalti

Ma il dossier, che finisce nelle mani di Giovanni Falcone depurato dei nomi dei politici democristiani Salvo Lima, Rino Nicolosi e Calogero Mannino, si traduce in un’ordinanza che rimane congelata per cinque mesi proprio da Giammanco, allora procuratore capo di Palermo, che ne sosteneva l’inutilità. Poi arrivano gli arresti, che coinvolgono anche imprese che operavano sul continente, come la Rizzoli De Eccher e la Tor di Valle costruzioni di Roma. È la prova che i capitali che Cosa Nostra fa con il traffico di stupefacenti vengono ripuliti al Centro e al Nord. E la sua storia finisce per intrecciarsi con la nascente Mani Pulite. Perché l’indagato Giuseppe Li Pera decide di collaborare con gli inquirenti, ma non viene creduto. E allora comincia a parlare di appalti ai giudici di Catania e ad Antonio Di Pietro, che all’epoca è impegnato in Mani Pulite.

Via D’Amelio

Dopo la morte di Falcone il giudice Borsellino dice pubblicamente che vuole riprendere in mano proprio l’indagine Mafia e Appalti. Proprio perché secondo lui avrebbe contribuito a dare un volto agli assassini e ai mandanti esterni di Capaci. E, secondo una tesi investigativa, proprio per questo Totò Riina accelera l’organizzazione della strage di via D’Amelio. Nel frattempo l’indagine Mafia e Appalti vede il rinvio a giudizio solo di cinque dei 45 indagati. L’archiviazione la firmano i giudici Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, oggi parlamentare M5s. Giammanco la controfirma. Alla fine i cinque vengono tutti condannati. Ma intanto un gruppo di otto pm presenta le dimissioni chiedendo al procuratore di lasciare. E lui, ritenuto vicino alla corrente andreottiana di Salvo Lima, alla fine se ne va tra le polemiche.

La difesa di Natoli

Di fronte all’Antimafia di Chiara Colosimo, dove era stato convocato a seguito delle dichiarazioni dell’avvocato della famiglia Borsellino Fabio Trizzino, Natoli aveva sostenuto che le bobine delle intercettazioni riguardanti i fratelli imprenditori Buscemi, oggi utilizzate dall’accusa contro lo stesso ex magistrato, non erano state affatto smagnetizzate e che lui stesso le aveva fatte ritrovare. A Caltanissetta l’ufficio inquirente è diretto da Salvatore De Luca, che fu collega di Natoli a Palermo. L’ex magistrato è in pensione dal 2018 dopo aver lasciato un anno prima la presidenza della Corte d’appello di Palermo. L’ultimo incarico è stato al ministero della Giustizia come direttore dell’organizzazione giudiziaria. Il ministro era Andrea Orlando.

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