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Hassan Hamad aveva 19 anni e lavorava come giornalista freelance. I suoi video sono stati pubblicati su diverse emittenti internazionali. Viveva a Jabaliya, il campo profughi palestinese nel nord di Gaza, da domenica sotto ordine di evacuazione israeliano, dopo la ripresa dell’offensiva via terra.
Un bombardamento, domenica, ha centrato la sua casa. Ha ucciso lui e la sua famiglia. Un raid così potente da farli a pezzi: i resti sono stati raccolti dentro buste di plastica e scatole. È il 175esimo giornalista palestinese a subire la stessa sorte: secondo il Committee to Protect Journalists, il mio più alto numero in un unico conflitto dal 1992 quando il Cpj ha iniziato a contarli. Hamad aveva denunciato telefonate e messaggi su Whatsapp dei servizi israeliani: «Se continui a diffondere bugie su Israele – si legge in uno dei messaggi – verremo per te e la tua famiglia. È l’ultimo avvertimento».
NON SOLO JABALIYA, ieri completamente assediata dai carri armati israeliani dopo una notte di pesanti raid aerei: 24 ore dopo Tel Aviv ha emesso un ordine di evacuazione per Khan Younis a sud. Unica via di fuga resta la costa sud-ovest, al-Mawasi, strabordante di tende ed esseri umani. Le pratiche si ripetono uguali a se stesse: ordini di evacuazione, operazioni di terra, raid aerei, in un circolo vizioso che di nuovo ieri, con i razzi di Hamas lanciati su Tel Aviv, dimostra la fragilità degli obiettivi (quelli dichiarati) del governo israeliano, a partire dalla distruzione totale del movimento islamista.
Che due giorni fa su Mondoweiss, in un’intervista a Mousa Abu Marzouk, tra i leader del politburo, ha indicato nel «confronto con la Gaza Division» dell’esercito israeliano l’obiettivo dell’attacco del 7 ottobre, per poi attribuire al collasso «che non ci aspettavamo» della divisione quello che chiama «il caos»: «Ha fatto sì che molte persone e fazioni attraversassero la linea di separazione e catturassero sia civili che militari. Alcuni hanno iniziato a trasportare beni dagli insediamenti». Marzouk dice anche che Hamas non aveva immaginato una simile reazione israeliana, ma di assunzioni di responsabilità non ce ne sono.
È TRASCORSO così il primo anniversario, riassumibile nei numeri (ieri decine di uccisi tra Jabaliya, Beit Lahiya, Gaza City, Rafah) e nei racconti: «Non sono sicuro che la gente ricordi davvero com’era la vita prima – scrive il giornalista Hani Mahmoud da Deir el-Balah – Si rivivono le stesse tragedie e la stessa miseria ogni giorno, dallo sfollamento forzato alla fuga per restare vivi».
E poi i numeri: il bilancio degli uccisi accertati ha superato i 41.900. I feriti sono 97.300, i dispersi almeno 10mila (ieri sono stati recuperati i corpi di due donne a Rafah: via via che si scava, qualcuno riemerge; i nuovi raid ne seppelliscono altri). 520 i cadaveri recuperati in sette fosse comuni; 2,1 milioni (il 96% della popolazione) senza cibo a sufficienza; due milioni gli sfollati.
In un anno Israele ha sganciato 75mila tonnellate di esplosivo: 42 milioni di tonnellate di macerie e danni per 33 miliardi di dollari. Poco più del doppio dei 17,9 miliardi che nell’ultimo anno gli Stati uniti hanno inviato all’alleato in aiuti militari, si legge nel rapporto Costs of War project della Brown University.
Nel pacchetto 25 caccia F35, 1.800 bombe Mk84 da mille chili e 500 bombe Mk 82 da 230 chili (usate, entrambe, in alcune delle peggiori stragi dell’ultimo anno).
Vittime palestinesi, ieri, anche in Cisgiordania. Nell’invasione del campo profughi di Qalqiliya, l’esercito israeliano ha aperto il fuoco e ha ucciso Hatem Ghaith di soli 12 anni, centrato all’addome dalle pallottole. Tre bambini feriti, una ventina gli arrestati che si sono aggiunti ad altri 25 detenuti nel resto della Cisgiordania.
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