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Questo articolo sulle auto elettriche è pubblicato sul numero 43 di Vanity Fair in edicola fino al 22 ottobre 2024.

Scena altamente teatrale di lotta di classe alla camera bassa di Montecitorio. Un frastornato Carlos Tavares, plenipotenziario di Stellantis, ultima mutazione di quello che un tempo si chiamava Fiat e che ora parla in tutte le lingue, tranne (quasi) l’italiano, che piagnucolava chiedendo soldi e incentivi per vendere nei nostri autosaloni le automobili costruite in tutti i Paesi tranne (quasi) l’Italia. Era seduto davanti a una pattuglia di deputati guidati da un Carlo Calenda in calzoncini da pugilatore che menava a nome e per conto di quel che resta della classe operaia italiana addetta alla metallurgia automobilistica e ora sempre di più alla cassa integrazione. «Lei mente sui progetti e sugli investimenti», gli ha detto a brutto muso il nostro peso welter. E il povero Tavares, che è povero per modo di dire visto che incassa 23 milioni di euro ogni anno fiscale, un migliaio di volte in più dello stipendio medio dei suoi dipendenti, che masticava amaro: «Sento da parte vostra rabbia e un certo livore, lo stesso atteggiamento che hanno i lavoratori». O cribbio. E Calenda giù altre botte: «Non vi daremo un singolo euro, sino a quando non ci presenterete un piano industriale scritto».

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Fabbrica Stellantis in Francia a Sochaux «Produrre in Italia costa il 40 in più» ha detto alla Camera Tavares ad di...

Fabbrica Stellantis in Francia, a Sochaux: «Produrre in Italia costa il 40% in più», ha detto alla Camera Tavares, ad di Stellantis.

Bloomberg/Getty Images

Un passo indietro di cinquant’anni. Nella Torino città-fabbrica, e nell’Italia del boom, il tempo lo scandiva la Fiat: tram pieni alle sette del mattino, con nebbia, nessuno in giro alle sette di sera, lampioni spenti. Giovanni Agnelli dai campi da sci del Sestriere regnava sulla vita di 230 mila operai, ordinando ai governi di stendere asfalto ovunque e di tenere al minimo dei giri lo sviluppo di treni e porti. Tutto doveva viaggiare su gomma. Tutto doveva concorrere a vendere camion e specialmente automobili – un milione l’anno ai tempi d’oro – che erano per lo più scatolette di latta coi finestrini a manovella, il sogno dell’italiano medio incantato dal nuovo mondo dei consumi e dal weekend. La parola d’ordine era: «Quel che è bene per la Fiat è bene per l’Italia». Bon.
Oggi la Fiat, che negli anni ha incassato dallo Stato quattro volte il suo valore, non c’è più (o quasi). Dopo la cura degli eredi Elkann le auto vendute in Italia sono scese a 300 mila, gli operai a un quinto. Indossata la coccarda francese di Peugeot, Stellantis ha spostato la sua sede legale in Olanda, paga le tasse a Londra, quota le azioni a New York, costruisce in Francia, Romania, Turchia, Usa, Brasile. La Grande Panda viene dalla Serbia.
E l’ultima Alfa Romeo dalla Polonia. Quattro anni fa, il governo Conte accordò un prestito da 6,3 miliardi di euro a Stellantis per investimenti in Italia. Elkann e Tavares promisero nuovi impianti e assunzioni, poi fecero il contrario, distribuendo quasi 4 miliardi in dividendi agli azionisti, cioè a loro, prima di restituire il prestito. Oggi tornano a battere cassa. Chiedono incentivi pubblici per vendere le auto elettriche e incassare profitti privati. Calenda mena, il sindacato annuncia lo sciopero generale. Il gong dice: quel che conviene all’Italia è tutto, tranne la Fiat.

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