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Health tech, così crescono le buone idee #finsubito prestito immediato




Ultim’ora news 11 novembre ore 14


La sopravvivenza delle startup nel passaggio dalla fase di incubazione al mercato vero e proprio è uno dei temi che accomuna le imprese innovative di tutto il mondo e di tutti i settori, ma nell’health tech assume la forma di un «attraversamento nel deserto» che spesso lascia sul campo molte iniziative promettenti (QUI abbiamo selezionato 8 idee in pole position per diventare realtà imprenditoriali). I motivi, e le possibili soluzioni, le spiega Gianmario Verona, professore di Innovation Management e presidente del Consiglio di sorveglianza della Fondazione Human Technopole. «Una delle caratteristiche delle startup del settore salute è che, rispetto ad altre, hanno un time-to-market molto superiore per le difficoltà della regolamentazione e del passaggio dai laboratori ai pazienti. Se c’è una startup, però, significa che l’idea c’è. Il punto è capire se esiste un mercato. E soprattutto se ci sono le competenze, che non sono solo quelle di natura tecnico-scientifica proprie dello scienziato, ma di tutto il team, a cominciare da quello finanziario. Negli ultimi tempi si inizia a notare un cambio di rotta su questo punto, quanto meno sotto il profilo della consapevolezza degli investimenti. Human Tecnopole rappresenta un’idea intelligente per sviluppare progetti che abbiamo quella scalabilità che gli americani di Boston hanno dimostrato essere fondamentale. Una bella idea e un business plan non fanno una startup; le tre regole base per il successo imprenditoriale di una nuova idea sono: execution, execution, execution. In Italia, estremizzando, manca l’ossessione dell’imprenditore. La volontà imprenditoriale, la determinazione dello scienziato che ha individuato una molecola è il punto di partenza, non quello di arrivo».

Gianmario Verona, pres. del Consiglio di sorveglianza della Fondazione Human Technopole

Quali aspetti gli investitori tengono in maggiore considerazione al momento della due diligence per valutare se una startup merita i finanziamenti?

«Nel settore salute il rischio imprenditoriale collegato alle startup è molto più elevato rispetto ad altri comparti. È un po’ più calibrato nella branca medtech, mentre nelle life science è elevatissimo. Gli investitori guardano con estrema attenzione non solo al business plan, ma alla qualità delle competenze complessive che accompagnano l’idea di impresa e la capacità imprenditoriale dell’ideatore. La parola d’ordine oggi è ecosistema. La startup e l’imprenditore sono ingranaggi, che devono lavorare in termini circolari. Ed è una cosa tutt’altro che banale.

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Come è cambiato il modo di valutare le idee rispetto al boom di life science e biotech di inizio secolo? I player istituzionali e privati nazionali hanno il know-how per valutare il loro valore o per avere successo bisogna arrivare sui tavoli dei venture capital stranieri?

«Il venture capital in Europa e in Italia sta maturando proprio in questi anni. Rispetto al passato anche negli investitori istituzionali c’è una volontà e un livello di competenze utili al settore della salute. Il nodo da sciogliere è che bisogna riuscire ad aggregare di più. Per usare un termine matematico, la derivata è positiva ma, come evidenzia il rapporto Draghi, altri Paesi stanno correndo come dei fulmini. Basti pensare al numero di unicorni che abbiamo in Europa: poco più di 140 dal 2008 a oggi. In America ormai invece si parla di decacorno e ectocorno (per indicare aziende da 10 miliardi o 100 mld di dollari rispettivamente, nda)».

I ricercatori italiani non sempre posseggono un’attitudine imprenditoriale e manageriale. Resta così ampia la cesura tra accademia, finanza e industria?

«Nelle life science ci troviamo in un momento straordinario perché è sempre più possibile avvicinare l’intuizione molecolare con l’applicazione finale. Confido molto sulle nuove generazioni, sono convinto che faranno più di quanto siano riusciti a sviluppare i ricercatori della mia generazione. È pur vero che, mentre il far quattrini fa parte della cultura americana, in Europa siamo diversi e il mondo accademico vive di questa legacy storica. La sensibilità, però, degli operatori sta cambiando rispetto alla consapevolezza della differenza tra patenting e publishing».

Quali sono le criticità che restano da superare per un tech transfer ottimale?

«Torno al tema delle competenze. Il lavoro dei technology transfer office richiede una complessità notevole e per questo si sta mettendo in campo un’attività di coordinamento importante, costruendo dei network tra centri per favorire lo scambio di competenze. Ci sono tante iniziative utili a contrastare l’isolamento delle startup che, altrimenti, non trovando un tessuto favorevole, guardano per forza all’estero».

Che cosa si sente di dire agli startupper italiani del comparto salute rispetto alla capacità di saper gestire e promuovere la propria impresa?

«I finanziamenti si possono trovare. Il consiglio è di concentrarsi sull’aggregare il team giusto per scalare l’idea imprenditoriale in tempi ragionevoli. E contestualmente identificare i venture capital con un know-how anch’esso utile ad accompagnare la crescita dell’impresa».

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Quale ruolo giocherà l’IA nel favorire la nascita e lo sviluppo di nuove imprese?

«L’IA aiuterà i ricercatori anche nella creatività. Già vediamo le sue applicazioni nella diagnostica. Quest’estate un nostro ricercatore, Head della ricerca computazionale, grazie all’IA ha identificato dei marcatori biologici in ambito oncologico. Ci sono poi software ai-based che aiutano i medici nella diagnostica per immagini. Come scrive Erick Schmidt, quella biologica sarà la quinta rivoluzione industriale».

In un orizzonte che va dal medtech al biotech, dal pharma alle life science, alle digital terapeutics, quali sono le aree di sviluppo più promettenti in Italia?

«Abbiamo la fortuna di avere una sanità che è in gran parte pubblica. E che genera tantissimi dati. Con tutte le precauzioni del caso, dobbiamo riuscire a utilizzare queste informazioni. Il futuro è la medicina personalizzata, ma per arrivarci dobbiamo servirci di questi dati. Generare progetti che valorizzino questa opportunità ci darebbe quel vantaggio competitivo che,
a livello di Paese, oggi manca. © riproduzione riservata



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