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Unire le aziende e il sociale per includere nel mercato del lavoro chi ne è escluso – La Guida #finsubito prestito immediato


Fondazione Industriali è un ente del terzo settore che mira per realizzare azioni di valore sociale utilizzando il lavoro come strumento per prendersi cura della società puntando sulle sinergie tra imprese, istituzioni ed enti no-profit. L’idea nasce da Confindustria Cuneo e dalla sua direttrice Giuliana Cirio, che è stata indicata anche come primo presidente. 

Quale retroterra imprenditoriale c’è dietro l’idea della nuova Fondazione?

Nasce da una storia e dall’idea che un’associazione di categoria come Confindustria abbia sempre più dovuto modificare il suo soggetto sociale.

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]I sistemi di rappresentanza industriali nascono a difesa degli interessi, in un metodo di contrapposizione tra datore di lavoro e lavoratori. Man mano che l’impresa e l’imprenditore si sono accorti di essere dei soggetti sociali, le cose sono cambiate. Ci si è accorti che ogni azione aveva un impatto su: sociale, ambientale, culturale. Quando faccio un capannone se decido non solo dove farlo, ma come farlo, cambio la faccia di una città. Se decido di usare una determinata fonte di energia impatta sulla qualità dell’aria di tutti. Vale per il modello di approvvigionamento (camion o ferrovia) e di lavoro (chi assumo, come lo assumo, quanto lo pago, da dove lo faccio arrivare, che orari gli faccio fare, quali politiche di welfare, di integrazione lavoro e vita familiare). O la parte retributiva (premi a chi incentiva le buone pratiche, a chi rispetta le regole sulla sicurezza). Questa coscienza è stata una maturazione culturale dell’imprenditore, aiutato dai sindacati, per arrivare a un’impresa che si sente soggetto sociale. 

Un cambio anche per le associazioni di categoria?

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Induce l’associazione di categoria a non essere più difensore ma rappresentante. Per Confindustria è stato più facile  che per altri, avendo dentro aziende grandi che hanno necessariamente più teste, innesti internazionali, giovani, perché si possono permettere tirocini e ha aziende che si evolvono più in fretta. È stato naturale per noi lavorare sulla parte sociale dell’impresa. Siamo gli unici ad avere cinque assistenti sociali che stanno in azienda e ascoltano i lavoratori, come braccio del direttore del personale. Aprono uno sportello settimanale, pagato dall’azienda, per aiutare il dialogo e ascoltare i loro problemi personali. Un aiuto fondamentale di integrazione vita-lavoro e un servizio di riferimento soprattutto per gli stranieri (ricongiungimenti, diritti e servizi).

Su cosa avete lavorato prima degli altri?

Su molti aspetti. Tanto sulla disabilità, un obbligo di inserimento e, come obbligo, vissuto male. Ci sono aziende che hanno saputo interpretarlo come opportunità facendone un punto di forza: da un lato nei bilanci ma soprattutto con un cambio di paradigma della gestione del personale, da forza lavoro che ha l’obiettivo di produrre all’idea che l’azienda non è altro che una fetta di società con le differenze che nella società ci sono, di genere, religiose, culturali. Oggi il direttore del personale deve avere competenze più vicine alla sociologia che all’economia. Sulla disabilità si deve tenere conto anche della diversa capacità di lavorare. Per questo abbiamo un servizio di accompagnamento puro e semplice: si inserisce la persona che viene accompagnata per i primi dieci giorni, si creano relazioni con i colleghi, si torna dopo un mese e la si sente al telefono per tutto l’anno. Alle aziende non viene in tasca nulla, sono spese in più, ma l’imprenditore capisce che solo investendo in questo genere di integrazione e qualità ha una forza coesa in azienda e ha cambiato la vita di una persona. 

Per questo la Fondazione?

Confindustria era già avanti su questi aspetti sociali ma era necessario un nuovo soggetto che operasse in autonomia e che non vivesse delle quote associative obbligatorie delle aziende ma di una contribuzione facoltativa per chi sente di più questa missione e per tracciare una strada. Un soggetto che si alimentasse di forze proprie come una fondazione, ente del terzo settore iscritto al Runts, per iniziative indirizzate al mercato del lavoro in chiave di sostenibilità sociale, creando opportunità concrete capaci di includere nel mercato del lavoro chi ne è escluso.

La Fondazione vuole occuparsi di cose che non è giusto facciano le aziende, e non è pensabile che se ne occupi lo Stato. Quali?

Tante. Il Governo darà 1.000 euro per ogni bambino che nasce ma con 1.000 euro decidi di fare un figlio? O 5.000 euro per i datori di lavoro da dare ai lavoratori che abitano a più di 100 km di distanza perché affittino case più vicine. Ma chi affitta a un immigrato? Anche nel modello virtuoso di Cuneo non si affitta perché si è legati a preconcetti. C’e bisogno di un soggetto che faccia cerniera tra le possibilità che ognuno può mettere in campo e la caduta a terra di queste possibilità. Prendiamo tutti gli alloggi sfitti, li censiamo e facciamo operazioni culturali verso i proprietari. 

Una proposta che avete fatto a tutti i vostro soci?

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Una scelta volontaria. Ci siamo mossi in due fasi sapendo che alcune persone sarebbero state più attente e di ispirazione agli altri, testando che l’idea fosse buona e chiedendo un impegno importante, 50 mila euro ad ognuno. Poi l’abbiamo ampliata e raccolto 23 soci fondatori, più 4 partecipanti, più una serie di donatori. Confindustria, pomotore, ha deciso di affidare a Fondazione gli utili di bilancio  

I primi progetti?

Il primo “STEMiamoci” è di orientamento scolastico perché è necessario creare nei giovani una coscienza del lavoro che oggi manca e raccontare come  il lavoro sia strumento di realizzazione della persona. Il progetto punta a discipline Stem più scientifiche e tecniche puntando su digitale, innovazione, lingue straniere. Il 2 e 3 dicembre incontreremo studenti e genitori. Il secondo è un grande progetto sull’immigrazione. Oggi abbiamo tantissime posizioni scoperte nelle aziende, dalle maestranze comuni agli ingegneri specializzati, stiamo facendo un censimento e mappatura su posizioni aperte perché vogliamo dire puntualmente dove e quali tipi di lavoratori mancano e in quali aziende con una mappatura geografica precisa. Solo così possiamo incrociare le domande con le disponibilità del territorio nei Cas (circa 2 mila persone  in provincia). Le aziende hanno bisogno di gente che lavora, e per certi lavori non trovi più italiani disponibili. I posti aumentano per la denatalità, in Granda ancora di più che in altre zone. Avremo meno lavoratori, meno stipendi, meno tasse, meno servizi, meno scuole e sempre più anziani da assistere. Per fortuna c’è un grande flusso di migrazioni che è una grande risorsa se gestita. Per questo serve il nostro metodo imprenditoriale con obiettivi sociali.

Ma non c’è chi già se ne occupa? È un lavoro di rete?

Il nostro sarà un lavoro di rete,  ci inseriamo dove il meccanismo si inceppa, dove la cooperativa sociale si interrompe dopo averli accolti, dato da mangiare e dormire. Interveniamo con un mediatore culturale nei Cas mappando le competenze delle persone che ci sono. Identificati i profili incrociamo con le esigenze di aziende intorno accompagnandoli, è questa la differenza, insegnando italiano, sicurezza, contratto di lavoro, diritti e doveri. Diamo dignità alle persone e una possibilità che non hanno avuto nel loro paese.  Lo stesso faremo con i rifugiati e con i carcerati per permettere una salvezza tramite il lavoro. Sui carcerati le recidive per chi lavora sono il 10% contro l’80% degli altri 

Avete dipendenti?

Abbiamo una struttura e un organigramma di partenza con dipendenti Confindustria, che ha scelto di non aggravare di costi la fase di start up e concede parte dell’orario a diversi sui professionisti. Dal 2025 avremo bisogno di altre gambe. Abbiamo anche alle spalle la potenza delle imprese e speriamo che ne arrivino tante altre.

È soddisfatta finora e come procederete?

Molto. È stato un lungo parto ma davvero avvincente e procediamo con entusiasmo. Sono presidente di questa realtà unica e appena nata che ha bisogno di essere presidiata e accudita e di una forte spinta soprattutto nel prossimo anno con la partenza dei vari progetti perché ha un potenziale enorme.

Quale è lo stato di salute delle aziende cuneesi?

Premesso che stiamo sempre meglio degli altri, ed è una costante che è nei numeri, qualche segno di preoccupazione c’è. Cresce la produzione industriale, unici in Piemonte, e l’occupazione con comparti che tirano come l’agroalimentare, la chimica e l’edilizia, ma la preoccupazione è che la crisi dell’automotive che prima era torinese ora è piemontese e noi abbiamo un’importante filiera di componentistica sia metalli, sia gomma-plastica che risente di questa crisi. C’è crisi nel comparto di meccanica agricola, dopo trimestri di crescita, ma sono segnali da valutare e la legge di stabilità non aiuta. Le imprese non capiscono cosa vuole fare la politica e sceglie di non fare investimenti. “Industria 5.0”, un’idea virtuosa che collegava la defiscalizzazione all’impatto ambientale, è un flop. Il meccanismo di legiferazione italiana fa sì che tanti hanno fatto  analisi e piani di investimento ma chi ha aderito si restringe a qualche unità. 

Lei che è osservatrice privilegiata come è cambiato il mondo industriale cuneese?

Dobbiamo dire grazie alle multinazionali che nel dopoguerra hanno deciso di venire qui, Michelin, Alstom, Valeo, Ferrero che è rimasta: hanno portato un motore di sviluppo per tutto l’indotto e creato questo sistema di piccole e medie aziende e artigiani che è la nostra forza e quindi abbiamo un modello che ha dentro l’eccellenza innovativa della multinazionale e la nostra forza lavoro resiliente e seria. In più abbiamo una grande tendenza all’indipendenza: mettersi in proprio è una conquista, significa fare un salto sociale in avanti e per questo ci sono tante partite Iva e professionisti che sono un tessuto connettivo importante con associazioni di categoria all’avanguardia. E Confindustria è stata avanti.

Confindustria e cultura, lei sta molto battendo su questo fronte. Ma quale rapporto tra chi produce ricchezza e lavoro e chi fa cultura?

Sono interconnessi. Due i filoni: la cultura di impresa che si sviluppa all’interno delle mura aziendali che significa cultura del lavoro fatto bene, del bello applicato all’ambiente, dei rapporti tra imprenditore e lavoratore, del rendere il luogo di lavoro luogo di relazione (attraverso mensa, servizi, asili aziendali, biblioteca). Anche coinvolgendo i lavoratori in momenti di volontariato aziendale: ci sono aziende che regalano ad enti del terzo settore ore dei propri dipendenti per il volontariato sociale e sportivo. È un coinvolgimento che tiene il lavoratore, che sentirà l’azienda sua: sono quelli che nell’alluvione spalavano il fango in azienda prima che a casa loro. Da parte dell’azienda c’è anche il desiderio di fare delle cose belle: invento una macchina e cerco un designer per renderla anche bella, che è il valore aggiunto. C’è poi un’altra cultura: un bravo imprenditore che progetta il futuro non può farlo solo guardando i numeri del bilancio e concentrandosi su mercato/prodotto ma leggendo, andando a teatro, al cinema, alle mostre. È l’ideale Olivettiano che aveva a libro paga anche un poeta come Caproni. La cultura alimenta la visione ed è fondamentale. 

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Per questo ha fatto nascere la Sezione cultura?

La cultura può dare da mangiare, per questo associamo gratuitamente le realtà che fanno cultura al nostro sistema dando servizi gratuiti (bilancio, foundraising per cercare di incrociare imprese che vogliono finanziare cultura e chi fa prodotti culturali. Il 27 novembre premieremo 6 aziende sulle 43 che hanno finanziato iniziative con il premio “Io investo in cultura”

C’era una volta il Patto per lo sviluppo: le categorie lavoravano insieme come controparte della politica progetti di ricerca, infrastrutture. Cosa è rimasto? 

Nasceva indebolito dal fatto che non c’erano tutti ma solo qualcuno che voleva influenzare più degli altri. Credo che sia defunto pagando questo scotto. Dobbiamo insieme concorrere al bene comune e ogni tanto significa anche lavorare al posto gli altri che non ce la fanno. È la funzione sussidiaria della società: i più forti aiutino i più deboli ma non decidano anche per loro. Ci sono due soggetti che si stanno distinguendo per volontà di coordinamento del tessuto produttivo: la Camera di commercio che è diventata un ente molto aperto, dove le decisioni si prendono insieme; e la Fondazione Cr Cuneo che si è assunto questo compito di motore di cambiamento e coordina le forze sociali ed economiche. 

La Camera di Commercio va al rinnovo come si porrà Confindustria?

Luca Crosetto è un ottimo presidente sta lavorando molto bene con grande impegno e apertura. Il rinnovo del 2025 sarà un lavorare insieme e senza contrasti, una scelta condivisa.Scrivi [/contenuto_in_abbonamento





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