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Avvocati, professione e verità – Legalcommunity #finsubito richiedi prestito immediato


di nicola di molfetta

Quando mi hanno chiesto quale fosse stato l’evento trasformativo per l’avvocatura negli ultimi trent’anni, non ho avuto dubbi e ho risposto: la comunicazione. Non per tirare acqua al mio mulino (che di comunicazione legale, anzi d’informazione sul settore ci vivo), ma perché più ci penso e più mi dico che senza la svolta comunicazionale, il mercato dei servizi legali così come lo osserviamo e interpretiamo oggi non sarebbe esistito. Mi rendo conto che sia legittimo chiedere (anche con un certo tono di polemica) se, infondo, sia stata la comunicazione a dar vita al mercato dei servizi legali o quest’ultimo a stimolare una nuova branca di specializzazione nel variegato universo dell’informazione? Siamo all’uovo e la gallina, verrebbe da dire. Del resto, il mercato c’è sempre stato. Ogni volta che si realizza una transazione tra un soggetto che compra e uno che vende un bene o un servizio possiamo dire che ci sia un mercato.

Ma questo non è stato sempre pacifico in tema di servizi legali.

Ci sono compravendite che sfuggono alle classificazioni più tradizionali della scienza economica, se non altro perché coinvolgono la sfera più delicata della vita di ciascuno con profonde implicazioni etiche. Quale? La salute, ovvio. Questa, si sa, si può declinare in due sottocategorie: fisica, la prima, e a detta di molti la più rilevante; sociale, la seconda, per convenzione perché in fondo a tutto c’è rimedio. Forse.

Della salute fisica, si occupano i medici. Della seconda, invece, gli specialisti delle professioni legali…

Sugli eserciti in grisaglie, posso lasciare i miei due cents, se non altro perché alla categoria dedico molto tempo e in qualche modo posso affermare di essermene fatta un’opinione abbastanza rotonda, per quanto (lo so) controversa.

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Anche qui, partirei da un dato di fondo prettamente economico. Il comparto, a livello mondiale, muove un fatturato di 787 miliardi di dollari, secondo le ultime stime della International Bar Association (Iba). Poi, se a questi sommiamo le tasse pagate su tali servizi (191 miliardi) e l’indotto (637 miliardi) possiamo dire che l’industria legale muove, nel complesso, un giro d’affari di 1,6 mila milioni di dollari con i suoi 20 milioni di avvocati sparsi su tutto il pianeta. NOTA: facendo i conti della serva, parliamo di un fatturato pro capite di poco più di 39mila dollari. In Italia sono circa 40mila euro l’anno, da molti anni… Quando si dice che tutto il mondo è paese. FINE DELLA NOTA.

Vi state perdendo tra gli zeri? Non siete soli. E non importa. Anche perché, generalmente, queste cifre sono frutto di stime, elaborazioni di medie, equazioni speculari che puntano a fornire un ordine di grandezza più che a misurare con precisione cartesiana le finanze della categoria che, come è facile immaginare, non distribuisce equamente fra i suoi adepti tali introiti. Sempre per giocare un po’ con i numeri (abbiamo fatto trenta, facciamo pure trentuno) possiamo dire che, se al mondo c’è un avvocato che guadagna 11 milioni di dollari l’anno (fidatevi, c’è e non è uno solo) ce ne sono altri 282 che, almeno in teoria, con la professione stentano a mettere insieme il pranzo con la cena. Ma vale anche per l’Italia? Direi di sì.

Sempre perché il mondo è una grande cittadina di provincia dove tutti conoscono tutti e alla fine non succede mai nulla di nuovo, basti sapere che 16mila avvocati tricolore producono circa la metà dei redditi della categoria (che di avvocati, nel Bel Paese, ne conta più di 240mila, si veda il numero 181 di MAG) e anche qui c’è chi pranza e cena in cucine stellate ogni giorno, e c’è chi si arrangia con un toast e una mezza minerale in attesa di tempi migliori. Questo è un dato di fatto.

Ma perché questa lunga premessa?

Perché per parlare di comunicazione e avvocati nonché dell’impatto avuto dalla prima su destini dei secondi, non possiamo parlare dell’avvocatura tutta e indistinta, ma dobbiamo concentrare l’attenzione solo su una faccia del prisma. In particolare, su quel pezzo di popolazione professionale che sembra avercela fatta o che quantomeno sembra aver meglio interpretato lo spirito del tempo scegliendo la strada che, alla fine, si è rivelata più azzeccata per godere di una quota decente del business legale contemporaneo. L’avvocatura d’affari. Torme di legali che sono andati ben oltre la dimensione artigianale del passato e hanno deciso di mutare la loro condizione dando vita a grandi strutture organizzate. In inglese le chiamiamo law firm. Tradotto? Fabbriche legali. Rende l’idea? La rende, direi. Definire certi colossi, studi legali, rischia di essere riduttivo. Il primo, il più grande del mondo, Kirkland & Ellis, nel 2023, con 3.500 professionisti world wide, ha realizzato ricavi per oltre 7 miliardi di dollari. Siamo d’accordo che si tratta di un’impresa vera e propria? Siamo d’accordo.

Visto da lì, il classico studio legale (avvocato, segretaria, due praticanti e un ficus benjamin in anticamera) sembra appartenere a un altro pianeta. O quantomeno a un’altra epoca. Negli ultimi trent’anni quelle grandi organizzazioni hanno cominciato a diffondersi in tutto il mondo, cambiando il modo di esercitare la professione.

A suo tempo, il fenomeno ha travolto anche l’Europa Continentale, Italia inclusa (la culla del diritto), ed è stato letteralmente accelerato dalla comunicazione che da un lato è servita a far conoscere queste organizzazioni ai clienti di ogni dimensione e ad ogni latitudine, dall’altro è stata fondamentale per parlare di questo nuovo modo di svolgere l’attività legale a colleghi e potenziali nuovi adepti: gli operai (da non meno di 180mila euro l’anno) delle moderne fabbriche della legge.

Ogni rinascita parte dal riconoscimento della verità, scriveva, più o meno, nel 1921 il Piero Calamandrei di Troppi Accocati!, e in questo processo darwiniano avviato dalla moltiplicazione della concorrenza nella categoria e dal diffondersi di law firm in giro per il mondo, la verità è che comunicare (la propria unicità e il proprio modello) è diventata un’azione necessaria per competere.

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Tra la metà degli anni Novanta e il primo ventennio del Duemila, stare sul mercato è diventata anche una questione d’immagine.

Il mercato. L’Europa. Nel dibattito interno alla comunità legale invasa dalle insegne internazionali e da nuovi modelli di approccio alla professione, l’utile dell’avvocato si è ritrovato a braccetto con la figura dell’avvocato utile che non interpreta il suo ruolo come sola “obbligazione di mezzi”, ma considera doveroso l’impegno al risultato. La comunicazione ha lavorato alla narrazione di questo “approccio altro”, efficientista e performativo, al ruolo del professionista. Ma siccome non esiste rivoluzione senza sconvolgimenti e dissidi di sorta, anche l’avvento della comunicazione legale ha provocato la sua bella crisi. Una crisi che ha travolto le coscienze di tanti, facendo sorgere dubbi e dilemmi al limite dell’esistenziale. Comunicare o non comunicare? Questa è la domanda che in tanti si sono posti, genuflessi davanti all’altare della deontologia. 

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L’avvocatura ragiona del suo ruolo in chiave etica dalla notte dei tempi. Da Plinio il Giovane con le sue dissertazioni sull’advocati fides, fino alle riflessioni sulle qualità dell’avvocato e alla natura del suo ufficio, cominciate nel XIX secolo e, di fatto, mai finite.

Parlare di sé e per sé (nel senso esclusivo del proprio interesse, al fine di una promozione personale e fine a sé stessa), non è mai stata considerata cosa buona. In Regole per formare un Avvocato, nel 1827, il giurista Luigi Rubino raccoglie e traduce dal francese una serie di scritti (antichi e moderni) rielaborati per illustrare la professione e avvicinarla alle nuove generazioni. Nella parte quarta dell’opera, intitolata Delle qualità dell’Avvocato, al punto 10, Rubino scrive: “L’Avvocato non debbe né vantarsi e lodarsi lui stesso, né vituperarsi ed umiliarsi per un eccesso ridicolo di modestia”. La complessità della materia credo sia evidente. Farsi guardare ma senza farsi notare. Sembra Totò. Ma è decisamente una questione più seria. Anche perché la conoscenza del settore, finalizzata all’attrazione dei talenti di ogni seniority e grado, non può che passare dalla sua narrazione.

Il primo a intuirlo in maniera nitida fu un avvocato americano, di Henry County (Indiana): James B. Martindale, nella seconda metà dell’Ottocento. Tra i meriti che lo hanno portato alla Storia, James B. Martindale ha quello di essere stato il primo avvocato a cogliere l’importanza della conoscenza, intesa come informazione sul settore. Perché è vero che quello dell’avvocato “non è un mestiere che si insegna, (bensì) è un mestiere che si impara”, come ha scritto il grande penalista ed esperto di deontologia, Ettore Randazzo, nel 2003, nel suo L’avvocato e la verità (Sellerio), ma è anche vero che nessuna università e nessun Maestro, si è mai occupato di insegnare ai suoi allievi e alle sue allieve come è composto il microcosmo professionale in cui andranno a esercitare quell’arte appresa “battendosi contro gli errori e le ingiustizie…nelle notti insonni e nei tumulti delle proprie angosce…indossando la toga e sentendosi permeati dalla sua malia”. Fu James B. Martindale a inventare la prima directory legale al mondo, nel 1868. Uno strumento fondamentale che nelle biblioteche dei primi studi italiani sarebbe arrivato oltre un secolo più tardi. Un prodotto che esiste ancora oggi e ha ispirato svariate imitazioni. Nella prefazione alla prima edizione di questa directory, si legge:

The object of the work is to furnish to Lawyers, Bankers, Wholesale Merchants, Manufacturers, Real Estate Agents, and all others who may have need of business correspondents away from home, the address of one reliable law firm, one reliable bank, and one reliable real estate agent in each city and town in the United States; also to give the laws of the several States on subjects of a commercial character that are of interest or importance to business men, or have a bearing on mercantile transactions and the collection of debts…

Ovvero:

Lo scopo dell’opera è quello di fornire ad avvocati, banchieri, commercianti all’ingrosso, produttori, agenti immobiliari e a tutti coloro che possono avere bisogno di corrispondenti d’affari lontano da casa, l’indirizzo di uno studio legale affidabile, di una banca affidabile e di un agente immobiliare affidabile in ogni città e paese degli Stati Uniti; inoltre, fornisce le leggi dei vari Stati su argomenti di carattere commerciale che sono di interesse o di importanza per gli uomini d’affari, o che hanno un’attinenza con le transazioni mercantili e la riscossione dei crediti…

Oggi le directory legali sono numerose, diffuse in tutto il mondo e cercano ancora di realizzare lo stesso scopo. Questo filone d’informazione di servizio ha grandemente agito da moltiplicatore dell’avvocatura d’affari e contribuito alla sua conoscenza e diffusione.

Senza andare tanto lontano nel tempo, il socio di un grande studio legale d’affari italiano, mi ha raccontato che lui è riuscito a fare la sua carriera solo grazie a una serie di fortunate coincidenze e a un pezzo di carta. Non parlo della sua laurea cum laude all’Università di Catania conseguita nel 1990, ma della pagina che una directory dell’epoca dedicava all’Italia e di cui gli fu fatto dono da un collega di Parigi (socio a sua volta di una law firm americana) quando lui gli chiese se fosse al corrente della presenza di studi simili al suo in Italia. Quel foglio, pochi indirizzi, rappresentò la via d’accesso alla business law per l’allora giovane avvocato che, diversamente, non sarebbe mai potuto arrivare a informazioni tanto banali quanto essenziali, solo perché non aveva mezzi e strumenti per potersele procurare. Niente Internet. Zero social. Il concetto d’informazione legale non era ancora nato o al massimo si limitava a una forma di gossip sulle stranezze, il potere, le astuzie e qualche scandalo che di tanto in tanto poteva travolgere la categoria, come le migliori famiglie. Delle cose di avvocati erano informati solo gli avvocati, non tutti, però. Non c’era democrazia informativa. E la conoscenza del settore, delle dinamiche che alimentavano l’attività stragiudiziale, l’assistenza alle persone giuridiche e la professione fuori dalla selva oscura dei Tribunali e delle carte bollate, era appannaggio esclusivo di una élite che, tra le altre cose, teneva ben stretti i cordoni della borsa della conoscenza. Per la maggioranza della popolazione forense, invece, gli “avvocati semplici”, c’era solo il lavoro come s’era sempre fatto e la consolazione di una presunta Tradizione (con la T maiuscola, appunto).

Non essendosi mai considerata un’attività produttiva come le altre (e men che meno un commercio) la professione è cresciuta e si è sviluppata nei secoli in maniera totalmente destrutturata. Ed è solo di recente che è stata ordinata e codificata consentendo a tutti i suoi stakeholder (cittadini, imprese, istituzioni pubbliche e private, studenti) di riconoscere il perimetro del settore, le sue aree di specializzazione, i profili degli operatori principali, stimolando l’apertura ad altre discipline trasversali e più di recente il dialogo con la tecnologia e la sua adozione per aumentare efficienza ed efficacia dell’attività degli avvocati.

Tutto questo sarebbe stato impossibile o quantomeno (se non vogliamo esagerare) sarebbe avvenuto in tempi molto più lunghi senza le accelerazioni prodotte dalla comunicazione che è servita a fare luce su alcune nozioni fondamentali. Qualche esempio? Com’è fatto uno studio legale organizzato, quali sono i diversi modelli di associazione professionale (o società) in circolazione, come funziona la governance di queste strutture, quanto si guadagna, quali sono le diverse categorie di professionisti presenti, come si rapportano ai clienti, da quali percorsi formativi arrivano i nuovi avvocati, come si posizionano sul mercato, quali aree di specializzazione coprono, chi sono i loro concorrenti principali, come investono le loro risorse… e potremmo andare avanti ancora a lungo.

Tutto è accaduto grazie alla comunicazione, nonostante i tentativi di minimizzarla in senso letterale, di renderla impercettibile, atrofizzata. Farsi guardare ma senza farsi notare… Ma a un certo punto, non è più stato possibile.

In Italia, la comunicazione legale è stata legittimata, dopo anni di travagli e contestazioni, dall’articolo 10 della legge 247/2012 che ne considera la funzione e l’utilità proprio in relazione alla necessità di far conoscere al mercato «l’organizzazione e la struttura dello studio», così come le «eventuali specializzazioni, titoli scientifici e professionali posseduti» dagli avvocati che ci lavorano.

La comunicazione è diventata necessaria nella dinamica competitiva imposta dal mercato contemporaneo. Nel suo personale secolo breve, l’avvocatura d’affari si è addormentata casta professionale e si è risvegliata classe imprenditoriale.

Ed è per questo che la comunicazione va considerata la più importante innovazione che ha caratterizzato il settore dei servizi legali negli ultimi trent’anni.

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Ma chi conosce la Storia e i suoi ricorsi, sa anche che spesso a una rivoluzione fa seguito una fase di restaurazione in cui ciò che è stato distrutto viene ricostruito, in forma differente, ma con la medesima sostanza. Siamo il Paese di Mazzini e Garibaldi. Ma siamo anche il Paese del Gattopardo e del monito del nipote del principe di Salina: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Vale per l’Italia. E posso assicurare che vale anche per il resto del mondo.

Oggi, l’informazione legale è nutrita da ondate tsunamiche di comunicazione accreditata, ufficiale, coordinata e controllata alla fonte. Il problema non è più conoscere il settore. La sfida più grande che tutti gli operatori di questo comparto devono affrontare è quella di decrittare la rappresentazione di esso, che con la verità non è detto che abbia sempre a che vedere.

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L’infodemia è la malattia di questo inizio di XXI secolo a livello globale. Sappiamo troppo e paradossalmente finiamo col sapere sempre meno. Intanto, gli argini che un tempo rinchiudevano le informazioni sul settore in una diga alta e inaccessibile si sono rotti e migliaia di avvocati inondano il web e i social di parole e immagini non sempre necessarie, non sempre d’interesse, non sempre autentiche.

A proposito di questo, non dimenticherò mai la scena. Qualche anno fa, un avvocato che da tempo aveva superato i cinquanta e che con me si era sempre vantato di non avere mai ceduto alla tentazione velleitaria della visibilità mediatica, mi telefonò annunciando l’eccezione che si apprestava a realizzare rispetto alla sua regola del silenzio volontario e consapevole. «Ti mando una notizia davvero importante. Ho seguito l’operazione più interessante degli ultimi dieci anni. Un deal complesso, pieno di risvolti giuridici che faranno scuola. Non è che mi interessi apparire. Ma questa cosa è troppo rilevante per non darne pubblica notizia». Gli dissi che l’avrei attesa con trepidazione. Gli chiesi anche se volesse cominciare ad accennarmi, in modo che potessi prepararmi e raccogliere un po’ di documentazione in vista della scrittura del mio pezzo. «Ti procuro tutto io – fece lui con tono severo -. Intanto ti faccio mandare una mia foto». Fu di parola. Almeno in parte. Qualche minuto dopo il nostro scambio, ricevetti una e-mail dalla sua segretaria in cui si leggeva: “Come d’intesa con l’avvocato P.B.”. E null’altro. Solo un allegato: 11,5 Megabyte. La sua foto. Solo la faccia. Un primo piano sparato all’inverosimile. Una gigantografia del suo naso aquilino che sormontava una smorfia di compiacimento sulla bocca. Gli occhiali tartaruga, lo sguardo austero di un Cicerone e la barba fatta di fresco. Quel volto restò per qualche minuto a fissarmi in silenzio. Pensavo che il testo con il comunicato riguardante la operazione di portata storica sarebbe arrivato di lì a poco. Intanto, i muniti passavano. Nulla succedeva. Nulla sarebbe successo. Ancora oggi mi chiedo quale fosse quella notizia. Ma la cosa più importante che quell’episodio mi ha fatto capire negli anni è stata l’urgenza di esserci che a un certo punto ha cominciato a essere avvertita anche da chi, della propria “invisibilità” aveva sempre fatto un punto d’onore.

Il problema è che per un avvocato che ingenuamente manda solo la sua effigie e poi si fa prendere dal panico di dire, forse perché non si sente sicuro su ciò che possa effettivamente rivelare o forse perché alla fine è rimasto convinto che lo si nota di più se non si fa notare, ce ne sono ormai migliaia di altri che senza alcun filtro e senza alcuna riflessione strategica si lanciano nella comunicazione a prescindere dal fatto che abbiano o meno cose rilevanti da condividere. O meglio, senza preoccuparsi di capire se quello che decidono di voler raccontare possa essere d’interesse per altri: la comunità professionale o il mercato.

Nel momento in cui la comunicazione è diventata rappresentazione ha cominciato ad allontanarsi nuovamente dalla verità e questo, seppur con un rumore di fondo al limite dell’assordante, rischia di far calare un nuovo silenzio sul settore.

Quello che accade alla comunicazione nel settore legale è specchio dei tempi. Si tratta di un male contemporaneo. Un disastro che Yuval Noah Harari racconta bene nel suo ultimo saggio, Nexus (Bompiani), dedicato alle reti d’informazione. La verità è faticosa. Harari, in una recente intervista a Robinson (la Repubblica), ha ricordato che la verità «è complessa» e il problema è che siamo sempre più abituati alle cose semplici. Inoltre, ha aggiunto, «la verità di solito è scomoda e alle persone non piacciono le cose scomode. Preferiscono storie che le facciano stare bene anche se non sono vere» e a tale proposito ha raccontato che quando venne inventata la stampa a caratteri mobili il libro più letto del secolo non fu un testo fondamentale come De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, bensì il Malleus Maleficarum di tale Heinrich Kramer: un manuale per la caccia alle streghe pieno di leggende ed esoterismi.

La rappresentazione, oggi, indugia sempre più in una narrazione agiografica. È questo l’abracadabra con cui abbiamo a che fare. E qui costruisce mondi e scenari che giorno dopo giorno si allontanano di un passo dalla realtà fattuale delle cose.

Può capitare di ricevere note stampa da studi legali che non sono studi legali, “notizie” su avvocati che non sono avvocati, soci che non sono soci, vittorie che sono sconfitte, e tonnellate di detto e non detto che sollevano un fumo oltre il quale è sempre più difficile capire cosa stia accadendo veramente nel settore. Così la comunicazione si riempie di imperatori convinti di sfoggiare magnifiche vesti barocche, che alla fine si rivelano tristemente nudi alla meta della ribalta mediatica.

Contenere questa deriva ed evitare che la comunicazione si allontani troppo dall’informazione è la nuova sfida. Il nuovo silenzio da rompere. Il rompicapo da risolvere per permettere a una categoria così fondamentale per il progresso civile di non restare avviluppata in un metaverso marginale che si è autocostruita, lasciando ad altri, anzi a pochi, il controllo della conoscenza vera e quello del proprio futuro.

QUESTO ARTICOLO APPARE NELLA MONOGRAFIA DI MAG DEDICATA ALLE RIVOLUZIONI. CLICCA QUI E SCARICA GRATIS LA TUA COPIA

 

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