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Scaleup Act, nuovo trampolino per la crescita delle imprese: startup italiane più ambiziose #finsubito prestito immediato


Nel 2012, intorno ai primi passi della nascente economia dell’innovazione italiana, veniva depositata in Parlamento la proposta di legge Agenda Digitale (primi firmatari Antonio Palmieri di FI, Paolo Gentiloni per il Pd e Roberto Rao per l’Udc).

Poco dopo si costituiva una task force di operatori del settore presso il ministero, i cui lavori – assorbendo parte del lavoro parlamentare – hanno prodotto quell’insieme di norme che ambiva a dare un perimetro industriale al settore e che era stato denominato lo “Startup Act”. Si prevedeva un registro speciale in cui ammettere società basate su laschi criteri di innovatività, a cui concedere una serie di facilitazioni e incentivi per 5 anni dalla loro nascita. Quel perimetro di norme – poi implementato da una serie di misure addizionali che si è stratificato in modo confuso negli anni – viene oggi ridisegnato con un intervento all’interno della legge annuale sulla concorrenza, voluto dal ministero delle Imprese e del Made in Italy guidato da Adolfo Urso.

Il testo riforma il quadro legislativo, dandogli una cornice tutta nuova e con ambizioni maggiori: viene chiamato lo “Scaleup Act”, richiamando il nome della fase in cui le startup dimostrano una crescita dei ricavi superiore a quella dei costi (la scalabilità). Spinge verso un allineamento con quelle pratiche e metodologie internazionali che in molte altre nazioni stanno favorendo la nascita e la crescita di imprese a vocazione globale, basate su un impiego strategico della tecnologia, che possano diventare nuovi grandi datori di lavoro. Il messaggio tra le righe sembra quello che è ora di maturare e crescere, concentrando incentivi migliorati verso chi può sperare – e, poi, dimostrare – di avere dei requisiti per diventare grande impresa.

Con la riforma è precluso l’accesso al registro italiano delle startup innovative per le imprese non scalabili (come per esempio le agenzie e le società di consulenza), allungando la permanenza nel perimetro facilitato, prevedendo il raggiungimento di condizioni intermedie legate agli stage di validazione tipici delle startup; si hanno 3 anni di tempo per dimostrare un’iniziale “trazione”, poi altri 2 per perfezionare un investimento da parte di un fondo di venture capital o per dimostrare una forte crescita dei ricavi; poi ulteriori 2 che consentono un ultimo biennio di permanenza nel registro con condizioni agevolate, per un totale di 9 anni di agevolazione.

Nelle more di questa rampa di lancio, gli investitori del primo triennio in cui il rischio è più elevato – sottoscrivendo quello che viene chiamato pre-seed capital – godono di una detrazione fiscale del 65% a valere sul de minimis. Che finalmente è fruibile seguendo gli standard di mercato – ovvero anche sottoscrivendo un contratto cosiddetto “convertendo” (il corrispettivo dello standard internazionale denominato “SAFE”) – e non perdendo la detrazione in caso di fallimento prima dei 3 anni dall’investimento, che era un controsenso della normativa precedente. Dopo il primo triennio rimane la vecchia detrazione del 30%, un ottimo incentivo a investire in startup in fase seed capital, che stiano già mostrando i primi riscontri di mercato.

Ancora più interessante che l’investimento non produca detrazione in caso di attuazione di cattive pratiche, come l’acquisizione di una partecipazione troppo rilevante o diritti eccessivi di governance, o di scambio tra investimento e fornitura di consulenza: vizi molto diffusi tra alcuni investitori italiani, che di fatto approfittavano della mancanza di tali limiti nella normativa per imporre condizioni capestro ai giovani imprenditori. È inoltre rilevante il fatto che vengano riconosciuti incentivi fiscali agli incubatori e che – oltre a questi – la normativa finalmente riconosca gli acceleratori di impresa, con una classificazione che include anche le figure più recenti dei venture builder.

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L’ultima novità legislativa da menzionare è quella che potrebbe finalmente portare l’Italia a competere ad armi pari con altre nazioni, aumentando il sostegno finanziario alle imprese tecnologiche: il governo pone una condizione agli enti previdenziali che godono di incentivi fiscali, indicando una percentuale – minima ma obbligatoria – di allocazione in venture capital per poter mantenere l’incentivo. È una condizione win-win, dato che il venture capital è visto erroneamente come ad alto rischio mentre è altamente redditizio, e il non investirvi è una mancata opportunità di profitto per il sistema pensionistico. La nuova normativa, quindi, significa che finalmente i volumi di investimento cresceranno e che le startup italiane più ambiziose potranno contare sui volumi di investimento accessibili in altre nazioni senza più dover espatriare, creando un maggior numero di posti di lavoro e alimentando un ciclo virtuoso.





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