Contraddire l’ovvietà. Piccolo discorso sull’insensatezza della morte

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L’uomo emana un odore speciale: fra tutti gli animali, soltanto lui puzza di cadavere.

E. Cioran, L’inconveniente di essere nati

Quia Christi bonus odor sumus Deo in his, qui salvi fiunt, et in his, qui pereunt: aliis quidem odor ex morte in mortem, aliis autem odor ex vita in vitam.

2Cor II, 15-16

[dedicato a Danilo B., in amicizia]

La morte è l’eventualità più ovvia nell’esperienza esistenziale dell’Uomo.

Ad eccezione di tale ovvietà, tutto è eccezionale, tutto è incredibile, del Tutto dovremmo meravigliarci.

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Tale ovvietà costituisce per l’Uomo la paura più grande, la matrice stessa dalla quale si generano tutte le altre paure. La morte è un’ovvietà per l’Uomo perché egli è consapevole della sua inevitabilità – così che possiamo anche dire che l’Uomo teme ciò che è assolutamente inevitabile. Ma siccome l’assolutamente inevitabile è ciò che contraddice la sua (presunta) libertà; di che altro ha paura l’Uomo, se non di ciò che contraddice la sua libertà?

La libertà che viene contraddetta dalla morte non è però la libertà autentica dell’Uomo, che dev’essergli ontologicamente propria. Si tratta piuttosto di quella pseudo-libertà che è un corollario all’auto-coscienza non riconciliata, cioè: alla percezione egoica. Colui che vive l’esperienza esistenziale in questa condizione di percezione assume un atteggiamento che è essenzialmente Wille zur Macht, volontà di potenza. Perciò: quanto l’Uomo teme sommamente è sostanzialmente la contraddizione della volontà di potenza, l’ipoteca alla manifestazione dello Ego.

Insomma: l’Uomo ha sommamente paura di perdere il proprio Ego – e ciò è talmente facile da comprendere, da risultare altrettanto ovvio quanto la morte: temiamo ovviamente l’ovvietà!

*

Oggi ho partecipato alle esequie di Nedo B., padre dell’amico Danilo.

Ci sono andato per vicinanza al figlio, ma anche per rendere omaggio ad uno dei fondatori del M.S.I. di Pistoia, ovverosia ad uno di coloro che si assunsero la responsabilità di custodire la fiamma durante un’epoca che avrebbe potuto estinguerla – insomma: ad una persona senza la cui opera non avrei mai potuto vivere quell’esperienza di militanza ideale che è stata fondamentale per la mia formazione.

Come accade sempre in queste circostanze, un pensiero funesto mi ha attraversato la mente: tutta una vita, per quanto intensa, per quanto ben vissuta, per quanto feconda secondo la carne e lo spirito, si riduce a questo? Il sigillo di quell’esperienza straordinaria è dunque questa salma inerte, quest’ammasso di carne rigida e pallida prossima alla decomposizione?

A tale pensiero – che presumo sia pensato da molti di coloro che sono in lutto e da coloro che ne condividono indirettamente l’esperienza – a tale pensiero la coscienza dell’Uomo può reagire in modi diversi; ma sul fondo di essa giace perlopiù l’ovvietà: si, tutto finisce così. È come se tutti i geni del nostro organismo e tutti i memi del nostro cervello gridassero all’unisono: «è finita!» – ed alla nostra mente affiora l’immagine dell’oscurità, il suono di un silenzio invincibile, la sensazione d’un vuoto claustrofobico.

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Da questo pozzo pensieroso si riemerge solo quando ci s’accorge d’avere paura, quando all’improvviso il ventre comincia a gonfiarsi a causa del panico suscitato dalla contemplazione fugace dell’infinito-niente.

È quindi la paura, nient’altro che la paura, a suggerirci l’opportunità di fare buoni propositi, ripromettendoci di prestare maggiore attenzione alla nostra salute, di curare maggiormente la nostra anima impiegando più sollecitudine rispetto a quell’ultima volta in cui abbiamo espresso simili buoni propositi.

Ma non si è finito ancora di passare in rassegna le varie occasioni possibili in cui applicarli, che già sappiamo, perché oramai ne siamo diventati esperti, che quei buoni propositi hanno una fisionomia incerta e si estingueranno, probabilmente abortiti a causa delle distrazioni quotidiane, di quelle circostanze che pur nella loro inessenzialità appaiono imprescindibili: imprescindibile è alzarsi la mattina presto per andare a lavorare, imprescindibile è impegnarsi con abnegazione nel lavoro; imprescindibile pagare il mutuo, le tasse, le multe; imprescindibile fare la spesa; imprescindibile fare visita ai parenti; imprescindibile è incontrare gli amici, imprescindibile scopare o magari fidanzarsi, sposarsi, procreare.

E incalzati imprescindibilmente da tutto ciò, i buoni propositi si rivelano per ciò che erano in verità già quando li avevamo espressi: un gesto apotropaico, una consolazione ipocrita perché non ci ha curati, bensì ci ha distratti dalla paura della morte.

I buoni propositi sono come la speranza conservata nel fondo del vaso di Pandora: attesa inopinatamente come possibilità di riscatto, ma in verità male del mondo, conforto falso e infame alla nostra sofferenza.

Quando comprendiamo questo, ci accorgiamo d’esserci perduti per la selva selvaggia dell’insensatezza del vivere. Per uscirvi, dobbiamo allora tornare sui nostri passi, tornare alla salma, al cadavere. L’ovvietà della morte, l’ovvietà di quel cadavere sanciscono l’insensatezza; è pertanto necessario vincere l’ovvietà stessa per recuperare il Senso.

In lutto erano anche quelle giovani donne di Betània, Marta e Maria, che avevano perso loro fratello Lazzaro; ed il lutto per il caro scomparso era condiviso anche dai membri della loro comunità, nonché dagli amici – amici tra i quali si annoverava anche Colui che è amico dell’Uomo, Gesù Cristo .

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Come narra l’evangelista Giovanni, Gesù Cristo si recò alla casa di Marta e Maria incurante del pericolo che Gli veniva dai Giudei – doveva fare ciò che doveva fare. Là giunto, Si fece accompagnare dov’era stata collocata la salma di Lazzaro. Davanti al sepolcro, ignorando i richiami all’ovvietà della morte che Gli arrivavano dai presenti – iam foetet (Gv XI, 39) – per confutare l’ovvietà stessa in virtù della fede: «Nonne dixi tibi quoniam si credideris, videbis gloriam Dei?» (Gv XI, 40).

Chi ha fede in Dio, potrà vederne la Gloria; e la Gloria di Dio non è contenibile entro la misura dell’ovvietà.

E siccome a Dio si può credere solo in Spirito; il cadavere allora resta davvero il sigillo all’egoità. Ma questo sigillo è stato dischiuso da Cristo, affinché il cadavere diventasse un ponte verso la Salvezza.

L’azione di Cristo verso Lazzaro non è stata fatta per Lazzaro, o per le sue sorelle, o per la comunità; è stata fatto bensì pro gloria Dei, ut glorificetur Filius Dei per eam (Gv XI, 4). E in cosa consiste tra l’altro la Gloria di Dio, se non nel vincere la morte e fare risplendere la vita e l’incorruttibilità (2Tm I, 10)? Coloro che hanno visto la resurrezione di Lazzaro possono contraddire paradossalmente l’ovvietà, confutando finalmente la necessità apparente percepita dall’intelletto umano in questa dimensione dell’esistenza. 

Solo per chi ha fede è possibile vedere rinnovata ancora quella resurrezione, che è il segno d’una resurrezione ulteriore. Solo la fede, che è paradosso, può contraddire l’ovvietà, spalancando così le porte della percezione alla Verità spirituale – la quale può essere intuita solo dall’Io, che sta in Dio, e non dallo Ego.

CONTRADDIRE L’OVVIETÀ: questa è una delle missioni personali e sociali del credente in Cristo: contraddire l’ovvietà dell’Ego e favorire l’avvento dello Spirito.

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Niccolò Mochi-Poltri

27 dicembre 2024, Festività di s. Giovanni evangelista

*In copertina: Andrea Mantegna, Cristo morto, 1470-74



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