Ottimismo attivo, la lezione del Colle

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«Le opinioni pubbliche sono lacerate. Faglie profonde attraversano le nostre società… che generano smarrimento, sgomento, talvolta senso di impotenza». Con questo allarmato avvertimento Sergio Mattarella ci ha accompagnato fuori dal 2024. E per superare le radicali contrapposizioni che in tutto il mondo dilaniano il discorso pubblico, il Presidente ha usato più volte tre piccole, e insieme grandi, parole: rispetto, speranza, fiducia. Le ha ripetute con inquieta insistenza, quasi suggerendo che non si riuscirà a trovare la via d’uscita dalle crisi che affliggono il mondo senza riabilitare parole dimenticate e riabbracciare valori perduti. Lo stesso forte richiamo al patriottismo, declinato come figlio di una manzoniana operosità di tutto il popolo, dai militari ai medici del pronto soccorso, fino agli insegnanti e agli immigrati che amano la nostra terra, non è certo stato un semplice espediente retorico. Ma il filo di un pensiero che invita tutti gli italiani, alla fiducia e alla speranza. A credere in se stessi.

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In sostanza, il vero “buon proposito” indicato da Mattarella per l’anno nuovo, insieme ai grandi obiettivi planetari, dalla conquista della pace al contenimento del climate change, è sembrato essere quello di indicare la via di una “nuova alfabetizzazione”che torni ad unire classi dirigenti e opinioni pubbliche. Riscrivere il “vocabolario della convivenza” (per “riorientarla” come ha detto): questo è l’antidoto per evitare che le laceranti polarizzazioni del nostro tempo mettano in crisi le nostre democrazie. Guai se chi governa la politica sottovalutasse l’urgenza di questa impresa, che non è certo soltanto “linguistica”: giacché le parole che dominano il discorso pubblico (e i valori che esse diffondono) sono il vero termometro della qualità di una civiltà. Al contrario le nostre leadership dovrebbero seguire l’esempio di Mattarella riabiltando altre “parole dimenticate”.

La prima non può che essere “equilibrio”. In un sistema politico troppo spesso squassato da accese faziosità, è doveroso riscattare le virtù dell’imparzialità e del buon senso. Quando Mattarella, ricordando i dati positivi del nostro export e gli incoraggianti indici dell’occupazione, esorta nello stesso tempo a non sottovalutare le croniche difficoltà della nostra economia (o della nostra sanità) offre “in diretta” un lampante esempio dell’equilibrio necessario a governare una grande nazione come l’Italia. Se il governo dice che tutto va bene e l’opposizione ripete sempre, invece, che tutto va male, il “partito preso” ha il sopravvento sull’obiettività e la democrazia deperisce, alimentando l’astensionismo e l’indifferenza dei cittadini.

Ebbene, per dare vera sostanza alla parola equilibrio andrebbero contemporaneamente riabilitati i concetti di “moderazione” e di “autocontrollo”. Se per la vita privata essi possono essere un optional, per quella pubblica sono un dovere assoluto. Eppure, oggi abitiamo “l’era dell’ira”. Rancori, invettive e volgari ironie sono esibiti, in tv o in Parlamento, senza alcuna dignità. Perdere i nervi e offendere apertamente gli altri sono comportamenti diffusi, persino coccolati come sintomi di autenticità. Ma si può dirigere un popolo (o un’azienda, uno studio professionale, una scuola) se non si è grado di controllare se stessi? La sottomissione della passione alla ragione sarebbe il dovere minimo di chi rappresenta la comunità. Ma, dagli Stati Uniti all’Europa, pare sempre più in auge il contrario.

Ebbene, per riportare la moderazione ad essere la colonna sonora della nostra convivenza bisogna forse riabilitare un’altra parola dimenticata: “umiltà”. “Era come un gallo che pensava che il sole sorgesse solo per ascoltarlo cantare”. L’aforisma della scrittrice inglese George Eliot ben si adatta alla sindrome degli uomini-galli del potere che, a destra, come a sinistra, popolano la scena pubblica. Del resto, non c’è proprio un gigantesco peccato di superbia alla base di ogni demonizzazione dell’avversario? Un peccato che nasce dall’illusione che tutto ruoti intorno a sé. Bisognerebbe invece ricordarsi, con George Lessing, che “tutti i veri grandi sono modesti”. O del nostro Giacomo Leopardi secondo il quale “tutti gli uomini che valgono molto hanno le maniere semplici”. Eppure, quasi sempre, da noi, le maniere semplici sono giudicate come indizio di scarso valore. Un “vizio” nazionale del quale non ci siamo mai liberati.

C’è poi da aggiungere che riabilitare l’umiltà significa anche frequentare, con maggiore convinzione, un’altra parola trascurata: “generosità”. A tal proposito Mattarella ha richiamato lo spirito del volontariato che eroicamente resiste alla generale caduta dell’ “amicizia sociale”. In una società forgiata sulla regola del “do ut des”, incanaglita dal perenne dubbio “a me cosa ne viene?”, agire “spassionatamente” può davvero diventare una potente arma di rinascita nazionale. La generosità, infatti, è il primo collante dell’unità sociale perché dove dominano Egoismo e Cinismo non può che sgretolarsi il cemento della comunità.

In conclusione, il discorso di Mattarella non ha nascosto la drammaticità, persino la tragicità, del momento storico che stiamo vivendo, eppure traspariva dalle sue parole un qual certo “ottimismo attivo”, basato sulla convinzione che se, appunto, crediamo in noi stessi, ce la possiamo fare. Forse si è ricordato di quel che diceva Winston Churchill: “L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità”. Niente male come pensiero di inizio del 2025.

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