Non c’è bisogno di girarci troppo intorno: Amazon, una delle più grandi multinazionali al mondo, ha perfezionato un sistema che le consente di non pagare, o pagare pochissimo, le imposte nei Paesi dove opera, Italia inclusa.
Lo schema del Lussemburgo: il cuore dell’elusione
Il trucco è semplice, almeno sulla carta. Amazon ha istituito una società di diritto lussemburghese, la Amazon Europe Holding Technologies Scs (Aeht), che detiene i diritti legali sulla proprietà intellettuale di Amazon al di fuori degli Stati Uniti. Questa società, essendo una “non-resident partnership” secondo le leggi del Lussemburgo, non paga imposte sui profitti derivanti da altre società del gruppo Amazon che utilizzano tali diritti.
Poi c’è la Amazon EU Sarl, che gestisce le attività europee del colosso. Questa società paga centinaia di milioni di euro alla Aeht sotto forma di “royalties” per l’uso della proprietà intellettuale. Così facendo, Amazon EU Sarl abbassa il proprio reddito imponibile – e con esso le tasse dovute – fino a dichiarare perdite. A chiudere il cerchio, la Aeht trasferisce questi miliardi alla società statunitense di Amazon per compensare il “diritto di licenza”. In pratica, si tratta di un gioco di trasferimenti interni che permette di concentrare i guadagni in Paesi con regimi fiscali favorevoli, lasciando i profitti operativi in quelli con imposte più alte a livelli quasi nulli.
Il danno agli Stati e il paradosso europeo
Questo schema permette ad Amazon di operare in Paesi come l’Italia senza pagare praticamente nulla in imposte. Mentre governi e cittadini si confrontano con un crescente carico fiscale, giganti come Amazon prosperano grazie a falle normative create proprio da Paesi dell’Unione Europea, come il Lussemburgo, che ne beneficiano. La cosa più scandalosa? Questo non è un caso isolato: altre big tech – da Google a Facebook – hanno adottato meccanismi simili. Ma Amazon è l’emblema di un problema sistemico, aggravato dalla pandemia. Quando milioni di piccole imprese erano costrette a chiudere, Amazon incrementava i ricavi sfruttando il suo monopolio globale, senza restituire nulla ai Paesi dove vendeva.
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La nuova imposizione fiscale globale: una foglia di fico?
Di recente, il G7 e il G20 hanno discusso di un’imposta minima globale sulle multinazionali, proposta dall’amministrazione Biden. Ma questa tassa – che colpirebbe solo corporation con almeno 20 miliardi di dollari di fatturato – riguarda appena un’ottantina di aziende a livello globale, rispetto alle 2.300 ipotizzate dall’OCSE. In Italia, l’impatto sarebbe risibile: un gettito di circa 2,5 miliardi di euro su 550 miliardi di entrate tributarie. Nel frattempo, le big tech applaudono. Dopo anni di consulenze legali e schemi complessi, preferiscono pagare una piccola frazione dei loro profitti pur di mantenere lo status quo. È una vittoria per loro, una beffa per noi.
Una corsa senza fine
Il caso Amazon è il simbolo di un’economia globale dove i colossi crescono senza limiti, sfruttando manodopera a basso costo e aggirando le leggi fiscali. E mentre i governi annaspano per rincorrerli con normative sempre in ritardo, i giganti della tecnologia continuano a giocare la loro partita con regole fatte su misura.
Chi pagherà il conto? Come sempre, i cittadini. E così, mentre ci raccontano che “non si possono aumentare le tasse alle imprese perché fuggirebbero”, quelle stesse imprese non pagano nemmeno le tasse esistenti. Un sistema che premia i più grandi, soffoca i più piccoli e lascia i governi con le briciole.
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