Crisi dell’automotive, la miopia di Marchionne sta costando cara alla produzione e ai lavoratori italiani

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Appena i giornali e giornaloni riportano la notizia delle dimissioni di Carlos Tavares da Stellantis, i giornalini della destra, insieme a questa notizia, riempiono pagine di dichiarazioni e discorsi di Sergio Marchionne, che viene ricordato come un profeta. Il primo ad esporsi contro la transizione ecologica, in difesa dell’auto con motore tradizionale, contro il superamento dei carburanti fossili e molto scettico nei confronti della filiera dell’Ibrido e dell’elettrico, che mai avrebbe potuto sostituire il motore a scoppio. Come a dire, “quando c’era lui caro lei” e contrapporre il Marchionne pensiero alla gestione fallimentare di Tavares.

Ma in realtà Marchionne è l’espressione più rappresentativa della miopia “manageriale” dell’azienda Automobilistica italiana, il protagonista delle azioni più dannose, che hanno reso gravissima la crisi della ex Fiat nel panorama della più generale crisi del settore automotive.

È lui che decide l’operazione Chrysler oltre Atlantico, un’azienda decotta che secondo le sue intenzioni doveva servire per vendere le “utilitarie”, city car Italiane in America, mentre è successo esattamente il contrario perché le tendenze di mercato hanno aumentato la vendita di Suv sulla piazza italiana dal 22% al 38%.
Sembrava che dovesse essere l’inizio di una joint venture strategica con il settore dell’auto negli USA, invece gli investimenti americani andavano in un’ altra direzione esattamente quella innovativa dell’elettrico, costruendo le fortune di un certo Elon Musk.

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Senza contare che di 57 milioni e mezzo di auto immatricolate nel 2022 nel mondo, solo il 5% hanno riguardato il mercato americano, meno anche delle immatricolazioni dell’area sudamericana (6,1%) e ben oltre il 65% hanno invece riguardato l’area dei mercati asiatici, che né Cina né Giappone, nonostante lo sviluppo esponenziale dei rispettivi settori auto nei segmenti più innovativi dell’elettrico e dell’ibrido, sono riusciti a colmare lasciando uno spazio di mercato alle altre aziende europee più lungimiranti della Fiat. Fino a quando è arrivata, non per caso, la guerra a bloccare definitivamente il mercato non solo della Russia, ma di tutta la via della seta, mettendo in ginocchio, soprattutto i campioni di quella scelta strategica (Germania e Francia), ma l’intendenza Italiana seguirà, checché ne dica la propaganda meloniana.

Uno degli argomenti utilizzati per frenare le scelte innovative è stata quella dei componenti del motore a scoppio che sono circa 30.000 contro i 12.000 componenti del motore elettrico. Certo è un argomento forte per descrivere la difficoltà di operare una riconversione produttiva, tout court, con un impatto fortissimo sulle attività indotte e sull’occupazione, ma nello stesso tempo è una ragione tangibile di una semplificazione fortissima, tale da prevedere il proliferare in tempi molto rapidi di nuovi impianti produttivi e competitivi.
L’incertezza della politica e le resistenze degli interessi consolidati, possono rallentare il processo, possono persino produrre dei momenti di ristagno, ma in ogni caso produrranno nel medio e lungo periodo un riassetto del settore ed un’offerta plurale.

La guerra contro i lavoratori

Non solo Marchionne ha preso la strada sbagliata dal punto di vista degli investimenti tecnologici innovativi e del marketing, ma ha ingaggiato una guerra vera e propria contro i lavoratori, volendo importare in Italia il modello contrattuale americano, una guerra spietata al CCNL. Ha inchiodato il sindacato sulla frontiera del “costo del Lavoro” ed è diventato per anni l’unico problema, non solo dell’impresa, ma di tutta l’economia nazionale. Un vero e proprio luogo comune sul quale Marchionne ha trovato più complici che avversari.
Pensiamo allo scontro feroce con la Fiom-Cgil di Maurizio Landini, ed alla Cisl e lo stesso Renzi, schierati con Marchionne contro Landini.

Marchionne ha condizionato fortemente la politica e ci sono stati interventi concentrici contro l’assetto contrattuale italiano e sulle norme di tutela del lavoro dipendente, attraverso le intese sindacali separate (senza il consenso della Cgil) e con gli interventi legislativi sulla liberalizzazione-precarizzazione del mercato del lavoro, l’abrogazione dell’art. 18, e le scelte di politica economica dei governi di sostegno all’offerta ed incentivi economici al settore auto, quindi alle imprese.

Oggi il leitmotive sul costo del lavoro continua ad imperversare nonostante i dati ci dicano che sul prodotto auto, chiavi in mano, il costo del lavoro si aggira intorno al 15%. Oggi, su una macchina che costa 20.000 euro, incide per 3.000 euro, se per miracolo venisse azzerato e si tornasse al regime di schiavitù, la stessa macchina costerebbe 17.000 euro e non credo che se ne venderebbero molte di più.

Sono altri i costi rilevanti, energia, management, pubblicità, promozione-distribuzione ed è esattamente su questi segmenti della filiera che si concentrano le risorse e quindi incommensurabili ricchezze che man mano vengono distolte dall’economia reale verso la finanza speculativa.

Se oggi scopriamo che in Italia ci sono i salari più bassi d’Europa, non è dovuto al destino cinico e baro, ma le ragioni vanno ricercate nella storia delle relazioni politiche-sindacali di questi ultimi decenni. L’aggressione concentrica al mondo del lavoro ed al sindacato, soprattutto alla Fiom ed alla Cgil, che oggi appaiono molto infragilite, colpite da tre virus micidiali: Covid, marchionismo e renzismo, al punto tale che Meloni vorrebbe sferrare l’assalto definitivo.
Forse la campagna referendaria della prossima primavera, potrebbe rappresentare un’opportuna cura ricostituente.



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