L’articolo vuole essere un monito per gli adulti evidenziando alcuni errori tra i più comuni che si fanno nel relazionarsi con i bambini
Ricordare, per ridare voce, per rifare luce: Giuseppe Di Matteo, vittima di mafia. Rapito a quasi 13 anni, sequestrato per 25 mesi, 779 giorni, tenuto in pochi metri quadrati, spostato in sette nascondigli, strangolato da tre killer, sciolto nell’acido a quasi 15 anni. Ha vissuto gli ultimi giorni peggio di Anna Frank, perché non ha potuto né scrivere né esprimersi, peggio dei condannati alle camere a gas, perché non ha potuto sentire la voce e la presenza di nessuno se non dei suoi carcerieri. Poi si parla di diritti fondamentali dei bambini, diritti umani dei detenuti, diritto internazionale di guerra… “Se questo è un uomo”, scriveva Primo Levi, scampato ai lager, se questo è un uomo, c’è da chiedersi ancora, ogni giorno e oltre, fin quando sarà commesso un aberrante crimine atroce, soprattutto a danno dei bambini. Oltre a crimini efferati e alle guerre che causano la morte dei bambini, la società attuale è sempre più free child o no kids, ovvero manifesta la “sindrome antibambini” oppure vìola i bambini o impedisce loro di essere tali.
Il grande pedagogista polacco Janus Korczak scriveva: “Purtroppo non conosciamo i bambini, o meglio: li conosciamo sulla base di pregiudizi”. Si ignorano l’infanzia, la cultura dell’infanzia e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, nonostante nell’art. 42 della Convenzione si preveda di farla conoscere diffusamente e nell’art. 45 si disponga di promuoverne l’effettiva applicazione. Il primo diritto dei bambini è quello di essere bambini e rimanere bambini quando ne hanno l’età per divenire “buoni” e “veri” adulti.
Il saggista Goffredo Fofi afferma: “La pedagogia non si è forse mai portata così male come oggi. Ripartire dall’essenziale, dalle osservazioni immediate e dalle necessità evidenti come fece Korczak, sarebbe oggi indispensabile a chiunque ami davvero l’infanzia e la rispetti”. “Osservare”, letteralmente “guardare diligentemente, tanto con gli occhi fisici che con quelli della mente”, e “necessità”, etimologicamente “raggiungere, conseguire, adoperarsi per raggiungere un fine”: spesso tra gli aspetti più trascurati nei confronti dei bambini, mentre ci si preoccupa maggiormente di come vestirli e di cosa far mangiare loro e, se mai, pure in modo inidoneo e secondo i gusti unilaterali degli adulti, innanzitutto delle mamme.
Anche Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, sostiene: “Se sappiamo osservare il bambino e dialogare con lui, ci rendiamo conto di come i primi sei anni costituiscano un laboratorio di scoperte e invenzioni. Spia privilegiata di questo intenso lavoro cerebrale è l’acquisizione del linguaggio, in cui la logica cede il passo alla fantasia e alla creatività”. Il primo e principale modo dei genitori e educatori di mettersi al cospetto dei bambini è dunque osservare (come fanno gli ornitologi dai capanni o dalle torrette o come hanno fatto i primi cultori dell’infanzia, Jean Piaget e Maria Montessori) e dialogare; in tal modo si rende anche possibile l’applicazione degli articoli 12 e 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
La prima cosa che si osserva in un bambino è il sorriso. Anzi, sin dalla nascita si cerca di cogliere e si ammira il sorriso del neonato e ci si stupisce come se fosse sempre un evento nuovo. “Non hanno neanche due mesi e già ti sorridono. Forse imitano gli adulti, forse è l’innato bisogno di compiacere, forse è la rivincita della natura sulla seriosità o forse qualcos’altro che ignoriamo. Fatto sta che il sorriso da subito fa parte integrante di una comunicazione vitale (così come le lacrime, d’altra parte, e i bambini riescono a piangere e a ridere insieme, mischiando senza vergogna sensazioni ed espressioni di piacere e di frustrazione). […] lo vediamo tutti noi, come nessun bambino rinunci a sorridere appena ne sia capace; e in quel sorridere, puro e un po’ enigmatico, si intravede una promessa, un segreto, una sfida. Il bambino ti sorride finché lo guardi negli occhi in una relazione diretta e attenta; un sorriso che ti costringe a fermarti, a non allontanartene bruscamente, ma quasi chiedendo permesso e scusa. E ti sorprende sempre” (fra Danilo Salezze, esperto di problematiche sociali). “Egli [il bambino] ha diritto alla spensieratezza, alla risata, al gioco, e anche a un avvenire professionale” (dalla Charte du BICE, Parigi 2007). Dalla serenità dipende il presente che, a sua volta, diviene solida base del futuro. “Sereno” etimologicamente significa “splendente” per cui si riferisce al cielo limpido e, poi, allo stato d’animo tranquillo, pertanto si addice a quanto scritto nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare “atmosfera di felicità, amore e comprensione” (Preambolo), “benessere” e “protezione” (art. 3) (il significato etimologico di “protezione” è “coprire davanti”, quel gesto di copertura che richiama la volta celeste). Ai bambini di oggi manca spesso la possibilità di alzare lo sguardo al cielo e sognare o il loro cielo non è affatto sereno ma tenebroso o con bagliori di bombe.
“La nostra cultura ha bisogno di sognare. La nostra società, stretta nelle grinfie del mostro poliedrico chiamato «denaro», non sa più sognare: ha bisogno di immaginazione escatologica, di alimentare la propria speranza collettiva” (lo studioso gesuita Bert Daelemans). Si ha bisogno di sognare, sospirare, soffiare: come un bambino che soffia sulla torta del suo compleanno per spegnere le candeline esprimendo il suo più grande desiderio con gli occhi chiusi e credendo fermamente a quello che fa in quel momento e in quel gesto. I bambini hanno il diritto di sognare e di crederci e gli adulti, se proprio non possono contribuire, almeno non devono intervenire o interferire per demolire o deturpare.
I bambini sono sempre più privati del loro tempo, del loro ritmo, della loro spensieratezza. Per esempio alcuni genitori li iscrivono anticipatamente alla scuola dell’infanzia o alla scuola primaria non tenendo conto del carico degli orari scolastici e delle attività didattiche proposte da dover sopportare quando lo sviluppo psicofisico del bambino non è ancora adeguato (si pensi alla difficoltà nell’impugnare matite colorate o altri strumenti). Sull’anticipo scolastico l’insegnante Paola Spotorno consiglia: “È un’opportunità e una facoltà che hanno i genitori, ma che deve essere esercitata nel rispetto dei reali bisogni del bambino e non di una supposta perdita di tempo nell’aspettare ancora un anno. Non c’è mai perdita di tempo se si rispetta la naturale crescita dei bambini, che non sempre coincide con la loro intelligenza o capacità di apprendimento, né tanto meno con lo sviluppo fisico. Bisogna prima di tutto valutare la loro capacità di concentrazione e il loro reale sviluppo emotivo”. “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o a mezzo stampa o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art. 13 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Affinché il bambino si esprima e sia libero di esprimersi è necessario che abbia il giusto tempo di acquisire questa capacità e i relativi mezzi.
“Esprimere” significa letteralmente “fare uscire premendo” e dentro di sé si hanno emozioni, stati d’animo, sentimenti che i bambini stanno imparando a provare e a incanalare, ma si tende a dare più importanza alle emozioni che ai sentimenti. Il filosofo gesuita Gaetano Piccolo chiarisce: “Le emozioni non interessano, per se stesse, nel discernimento, perché evidenziano la nostra passività rispetto alla realtà. Nel provare sentimenti, invece, siamo coinvolti come soggetti attivi, che di fatto stanno già operando mediante interpretazioni. Il sentimento, in altre parole, è la chiave di accesso per scoprire cosa stiamo pensando, come ci stiamo ponendo di fronte alla realtà. Per riprendere Spinoza, sono i sentimenti che permettono alla persona di conoscersi. […] Il conflitto, certo, rimane, ma si palesa come conflitto fra sentimenti, cioè tra interpretazioni della realtà. […] Se dunque nel sentimento sperimento chi posso essere, scegliere tra sentimenti in conflitto vuol dire scegliere chi voglio essere, decidere di me. Ecco perché non ci può essere riconoscimento della propria identità senza passare attraverso la consapevolezza dei propri sentimenti”. I bambini hanno il diritto di essere educati ai sentimenti e nei sentimenti, hanno il diritto di vivere i loro sentimenti: è quanto si ricava anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare dal Preambolo e dall’art. 8 in cui si parla espressamente di “identità” e “relazioni familiari”.
Lo scrittore Marco Missiroli annota: “C’è qualcosa che conta più della bellezza, della sensualità, del potere. È la purezza. Nessun uomo, e nessuna donna, riuscirebbe a desistere davanti alla possibilità di far proprio un candore”. Descrizione che rispecchia l’infanzia. I bambini sono letterari, non letterati: dicono quello che pensano e non pensano (= pesano) quello dicono. Altro che immaturi i bambini: essi manifestano già consapevolezza dei sentimenti, chiarezza nel linguaggio, comunicazione diretta, esprimono e mantengono segreti. I bambini si esprimono sempre, ma dall’altra parte non sempre trovano adulti pronti, preparati e premurosi. L’educazione sentimentale deve, pertanto, incanalare e salvaguardare questo patrimonio.
Purtroppo, l’ambiente circostante i bambini è sempre più “adultiforme”, sempre più bambini sono figli unici, nipoti unici, neonati unici in una società che si rivela sempre più adultocentrica e senescente. Ogni bambino è di per sé unico, ma bisogna fare in modo che non diventi “tiranno con la sindrome dell’imperatore”.
I genitori e gli altri adulti di riferimento dicono continuamente sì ai figli o ai bambini in generale, anche perché fisicamente comporta meno fatica ed energia chinare il capo, come quando ci si addormenta (segnale e metafora dell’addormentamento delle coscienze e delle responsabilità). Qualsiasi regola è accettata e rispettata se, anziché essere imposta, è condivisa, spiegata e incanalata verso un comune obiettivo: esperienza che si può e si deve fare con i bambini, cittadini del presente e del futuro. “Occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
Ai bambini bisogna non solo trasmettere le regole ma dire anche la verità in certe situazioni, ovvero i bambini hanno bisogno di autenticità (il cui etimo è “autore”, come per la parola “autorità”). Lo psicoterapeuta Alberto Pellai sottolinea: “La verità, anche la più difficile, per i bambini è sopportabile. Quando è stata detta, permette di dare voce a tutte le emozioni che essa scatena. Si può piangere per la tristezza, urlare per la rabbia, addolorarsi per la fatica. Ma almeno le cose possono essere dette. Così non rimangono intrappolate nella paura o nella bugia di chi sa qualcosa che c’è ma che non può essere comunicato. La verità fa bene. Anche quando fa male. A questo dovremmo pensare quando in gioco c’è il dolore e la malattia. E quando in questo gioco doloroso, purtroppo, sono coinvolti i bambini”. Nel summenzionato art. 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, si stabilisce che il fanciullo ha diritto di ricevere informazioni e idee di ogni genere affinché possa avere la libertà di espressione. Il “vero” è ciò che è conforme alla realtà ed è importante che il bambino sappia il vero in qualsiasi campo, a maggior ragione personale, in modo tale che sviluppi ed eserciti la sua libertà di scelta (art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia).
Ai bambini bisogna sì esporre la verità ma soprattutto saperla comunicare. La scrittrice Donatella Di Pietrantonio fa dire alla bambina per due volte abbandonata, prima dalla famiglia di nascita e poi da quella cui era stata affidata: “- Io voglio vivere a casa mia, con voi. Se ho sbagliato qualcosa dimmelo, e non lo farò più. Non lasciarmi qui. – Mi dispiace, ma non ti possiamo più tenere, te l’abbiamo già spiegato. Adesso per favore smettila con i capricci ed esci, – ha concluso fissando il niente davanti a sé. Sotto la barba di alcuni giorni i muscoli della mascella gli pulsavano come certe volte che stava per arrabbiarsi” (in “L’arminuta”). Nelle separazioni delle coppie e nelle forme abbandoniche dei figli si innesca un meccanismo perverso: da una parte l’autocolpevolizzazione dei bambini e, dall’altra, adulti sempre più egocentrati sui loro problemi, sulla conflittualità con l’altro/a e sulla ricostruzione della loro vita.
Si ricordi che la “personalità del fanciullo è sacra” (art. 1 Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro, Roma 1967) e che “ogni bambino ci dice a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità” (dalla Charte du BICE, Parigi 2007).
I bambini hanno chiaro tutto, gli adulti forse no: i bambini hanno diritto alla bambinità, alla loro bambinità, dal primo momento, in ogni momento.
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