Se avevate qualche dubbio su politiche green e utilità delle auto elettriche, potete metterlo da parte: il nemico dell’ambiente non è la vostra auto diesel o benzina. Kōhei Saitō, filosofo giapponese, riprende teoria marxista e studi ambientali per spiegare che il problema è altrove, in tutti i sensi. L’Europa è obbligata a frenare le emissioni ma per farlo è costretta a inquinare altre zone del pianeta, il tutto mentre aziende e miliardari continuano a riempire di anidride carbonica l’aria. Tutto è interconnesso, e ragionare sempre e solo in termini di crescita economica non fa che peggiorare la situazione. Il Capitale nell’antropocene, edito da Einaudi, mette tutto nero su bianco. Numeri e argomenti alla mano: tutto è greenwashing?
“Maggiori sono i sacrifici, maggiori sono i guadagni delle grandi imprese. Perché è questa, la logica del capitalismo”. Traduciamo, qualora ce ne fosse bisogno: più le cose vanno di merda, ambiente compreso, più le multinazionali si arricchiscono. Parole che avrete già sentito, sulla crisi che fa in modo che i poveri diventino sempre più poveri, e i ricchi che diventano sempre più ricchi. È sotto gli occhi di tutti, anche se ce lo dimentichiamo, ma Kohei Saito riesce ad andare oltre nella sua spiegazione. Aprite un attimo una mappa mentale del mondo, pensando a come girano i soldi. Il cash, quello vero, è concentrato nelle mani di pochi miliardari. Le aziende dei miliardari fanno lavorare altre persone dandogli il minimo necessario per sopravvivere, e spesso anche meno. I lavoratori sono un costo, per le aziende, e chi tiene i soldi dalla parte del pugnale deve fare in modo di spenderne il meno possibile. Fin qui siamo al marxismo spiegato a mio nipote, che è un po’ la premessa del libro. Il ragionamento però è ben più ampio, e riguarda l’antropocene, cioè l’impatto umano sul pianeta.
L‘uomo ha un impatto sul pianeta, e il motivo sono i soldi. Amen. Kohei Saito spiega anche il come. Lo fa in maniera semplice, pur salvando la complessità architettonica del ragionamento messo in piedi. Questa citazione da Lessenich è fondamentale: “La società dell’esternalizzazione crea costantemente un altrove, facendo in modo che tutti i costi convergano su di esso. È solo facendo cosí che le nostre società hanno potuto prosperare. La premessa essenziale dell’opulenza delle nostre vite consiste nel dirottarne i costi reali sulla natura e sulle popolazioni di qualche luogo lontano, e nel non pagare nulla di tasca propria.”. Qualcuno paga più di qualcun altro, venendo pagato meno. È questo che accade quando un’azienda chiude i propri stabilimenti per aprirli in paesi del terzo mondo o comunque dove la manodopera ha un costo minore. Ma scaricare il peso non vuol dire soltanto sottopagare operai e maestranze, perché risparmiare sui costi di produzione significa anche eludere altri elementi che pesano sui bilanci, come la sicurezza e la sostenibilità ambientale. Liberi di inquinare, la giustificazione è la crescita. Quante volte abbiamo sentito questo termine, crescita, in ottica aziendale?
L’economista Kenneth E. Boulding, citato da Saito, una volta avrebbe detto: “Chi crede a una crescita esponenziale infinita in un mondo dalle risorse limitate o è fuori di testa, o è un economista, o è tutti e due. Con tutta probabilità, sí, siamo fuori di testa”. Questo lo diceva Marx: il capitalismo dirotta altrove le sue contraddizioni e le rende invisibili. Oggi tutte le aziende, ce ne accorgiamo anche soltanto guardando un qualunque pacco di biscotti o bomboletta di deodorante, si dichiarano green e usano questa etichetta come strategia di marketing, per alleggerire il consumatore dai sensi di colpa verso il pianeta. Inseguono l’obiettivo di una crescita economica verde, ovviamente non rinunciando per questo ai guadagni. Il problema è se la crescita sia compatibile con i limiti naturali imposti dalla Terra. “Perseguire una crescita famelica e smodata nascondendosi dietro all’etichetta di verde, non porterebbe invece a oltrepassare questi limiti?”, si chiede Saitō. La risposta è no: “la scelta è limitata a due opzioni: o la crescita economica, o il contenimento del rialzo di temperatura”, e qui entrano in gioco le diseguaglianze: la differenza tra nord e sud del mondo e lo stile di vita dei milionari.
Dati alla mano, circa metà dell’anidride carbonica presente nell’ambiente viene prodotta dal 10 per cento della popolazione piú ricca. E in particolare, è lo 0,1 per cento di loro, con jet privati, auto sportive e una quantità di residenze lussuose a disposizione, a pesare enormemente sull’ambiente. Altroché il vecchio naftone Euro 6 che usate per andare a guadagnare i vostri milletrè al mese che nemmeno vi bastano per comprare del cibo climaticamente immorale. Certo, spiega il filosofo, “sostituire tutto il parco macchine mondiale a benzina con vetture elettriche porterebbe alla creazione di un mercato enorme e di nuovi posti di lavoro. In questo modo si risolverebbero sia la crisi climatica che quella economica. Ma la realtà è ben diversa. La chiave di tutto sta nelle batterie al litio di Yoshino Akira, premio Nobel per la Chimica nel 2019. Batterie del genere sono essenziali sia per smartphone e computer portatili che per le vetture elettriche, ma la loro lavorazione ha bisogno di grandi quantitativi di metalli rari. Innanzitutto il litio, ovviamente, che a sua volta viene estratto in gran quantità soprattutto dai territori lungo la catena andina. In parole povere, l’estrazione del litio coincide con l’estrazione di acqua dalle falde sotterranee. Il problema è il quantitativo. Per una singola azienda, si parla di 1700 litri al secondo. Se si sottrae un tale quantitativo d’acqua a un territorio già di per sé arido, si compromette seriamente il suo ecosistema. Ad esempio, sembra che stia diminuendo il numero dei fenicotteri andini che si nutrono dei gamberi che hanno nelle acque saline il loro habitat. Oltre a questo, l’estrazione improvvisa di acque sotterranee impedisce alla popolazione indigena l’accesso a quantitativi importanti di acqua potabile”. Quando entriamo in Ztl con l’auto elettrica non ci si accorge di tutto questo, ma la cosa peggiore è un’altra.
Parlano i numeri, non la politica, anche se spesso la questione dell’elettrico viene travisata come polemica tra destra e sinistra: “Il paradosso delle tecnologie verdi è che, in estrema sintesi, non sono verdi”. Bomba, certo, ma siamo all’interno di un libro di filosofia e non in un comizio: tutto è argomentato. L’autore riporta i numeri della Iea (Agenzia internazionale dell’energia): il numero di veicoli elettrici, che attualmente conta due milioni di esemplari, nel 2040 arriverà a duecentottanta milioni. Eppure, stando ai calcoli la diminuzione delle emissioni si ferma ad appena l’1 per cento. Il motivo è che nei paesi in via di sviluppo, nel frattempo, continuano ad aumentare i veicoli a benzina, e che passare ai veicoli elettrici non azzera le emissioni di CO 2. Inoltre, le dimensioni sempre maggiori delle batterie vanno a causare ulteriori e maggiori emissioni nelle fabbriche. Un circolo vizioso, altroché de carbonizzazione. In tutto questo, i piani vendita di Suv elettrici di Tesla e Ford non fanno che rafforzare una preesistente cultura del consumo, contribuendo solo a un ulteriore sfruttamento di materie prime. “È un esempio classico di greenwashing”, chiude Saitō. La soluzione? C’è, ma non la spoileriamo, perché Il capitale nell’antropocene è un libro che andrebbe letto da tutti, da insegnare a scuola.
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