Il Mezzogiorno d’Italia degrada, crescono le disuguaglianze tra Nord e Sud. La politica? Allarga il baratro

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Balza agli occhi la mancanza di un progetto industriale per il Sud e la tendenza della classe imprenditoriale e politica di ricercare solo rendite immediate in termini di consenso o di profitto. Le istituzioni non hanno assunto come strategico il lavoro industriale, e la politica fiscale non ha privilegiato la dimensione aziendale, né ha favorito la progressione impositiva e la redistribuzione dei redditi, né la solidarietà. La disuguaglianza sociale, resa cronica dal sistema fiscale, non è solo ingiusta: blocca e fa regredire l’intero apparato produttivo. Di fronte a dati strutturali drammatici, la nuova cultura antimeridionale tocca i vertici più alti degli ultimi vent’anni e i fondi del Pnrr non riequilibrano il Paese. Come è potuta accadere una rimozione profonda e prolungata delle rilevanze scientifiche, sociali e morali, del pensiero meridionalista?

L’intervento di ALESSIO LATTUCA, presidente Movimento per la sostenibilità

All’avvio di questo nuovo anno è opportuno soffermarsi sulla necessità di un nuovo laboratorio politico per il Mezzogiorno. Per avviare la riflessione occorre una seria considerazione sul passato per una riflessione politica in un tempo davvero difficile. Tra le tante criticità emerse negli ultimi venti anni, va evidenziata senz’altro la mancanza di un progetto industriale e la tendenza, sia della classe imprenditoriale sia della classe politica, a ricercare soltanto rendite immediate in termini di consensi o di profitto. Mentre è condivisa l’idea che sia indispensabile − per fare impresa, per affrontare la transizione ecologica, per garantire uno sviluppo sostenibile −  investire, sulle infrastrutture a partire dal Sud.

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Purtroppo le istituzioni non hanno assunto come strategico il lavoro industriale. Prevale ancora la cultura del superamento dell’industria e del piccolo è bello che ha danneggiato l’economia e l’innovazione in Italia. Così come la politica fiscale non ha privilegiato la dimensione aziendale, né ha favorito la progressione impositiva e la redistribuzione dei redditi, né la solidarietà. Va ricordato, in proposito, un elemento esemplare: in uno degli ultimi Consigli dei ministri, la proposta di Draghi di esentare dal taglio dell’Irpef i redditi al di sopra dei 75000 euro, per un contributo di solidarietà alle fasce più basse, è stata sonoramente respinta. 

Nonostante l’iniziativa partisse dall’autorevole presidente emerito del Consiglio, la destra ufficiale ha fatto muro insieme alla destra mascherata di “Italia viva”. Il Pd, il partito che la pubblica vulgata definisce (per pura inerzia) di sinistra, ha abbozzato. In definitiva, quando si tratta di redistribuire la ricchezza in Italia gran parte del ceto politico solleva al cielo gli scudi e non si passa. Quell’episodio tuttavia non è che un frammento della storia d’Italia degli ultimi 20 anni, nel quale si riassume la causa delle cause del declino italiano e la pietrificazione del sistema politico.

Passiamo ad altri elementi. La disuguaglianza sociale, alimentata e resa cronica dal sistema fiscale, non è solo un’espressione di ingiustizia, ma blocca e fa regredire l’intero apparato produttivo. Secondo i dati Ocse, il nostro Paese registra un’altissima percentuale di analfabetismo funzionale e, secondo l’Istat, il numero dei poveri assoluti e di poveri relativi è aumentato a dismisura. Un paese reale che registra un pericoloso disagio ed enormi, irrisolti, problemi strutturali, rappresenta un paese balcanizzato e privo di rotta. Mentre la ricchezza privata  si accresce a dismisura e permane la più elevata al mondo (come ricorda periodicamente la Banca d’Italia), il Paese lesina risorse pubbliche alla Scuola, all’Università, ai Comuni, alla Sanità, alla Pubblica amministrazione, al territorio, al Mezzogiorno.

A proposito di Mezzogiorno, è evidente che oggi − dopo circa 20 anni di totale disinteresse, o peggio di abbandono − la “questione” segna il punto più alto dell’emergere della nuova cultura antimeridionale. Alla luce, anche, dei processi in corso per l’assegnazione dell’autonomia differenziata alle regioni più ricche del nord e per gli equivoci insorti in merito all’assegnazione dei fondi de Pnrr destinati dall’Ue al Sud, nonostante le condizionalità imposte dall’Ue, come da consuetudine, registrano le note ingiustizie. Tale insopportabile comportamento è uno dei sintomi del collasso del Paese e del fallimento delle tanto sbandierate quanto inutili politiche del cosiddetto riequilibrio.

A tutto ciò, unitamente alla progressiva crescita della povertà, alla inflazione che impoverisce il ceto medio, si aggiunge la situazione di incertezza sul fronte economico e sociale che la guerra in Ucraina ha aperto e che potrebbe determinare un impatto sulla crescita e sulla tenuta sociale e democratica del Paese. A cui si è aggiunta l’inflazione che sta creando guasti irreversibili. Piuttosto che mettere al centro la gestione della post-pandemia, il rallentamento dell’economia, il ripensamento della giustizia sociale il corretto impiego delle risorse del Pnrr per la riduzione delle disparità e per la risoluzione della “questione meridionale”, per vili interessi di bottega la politica governativa ha scelto di precipitare il Paese in una situazione aberrante.

A proposito della questione meridionale, ci si deve porre una domanda cruciale: come è potuta accadere una rimozione tanto profonda e prolungata delle rilevanze scientifiche, oltre che sociali e morali, del pensiero meridionalista? E interrogarsi sulla fine che hanno fatto gli obiettivi a suo tempo dichiarati dal governo Draghi (di larghissima maggioranza) che erano essenzialmente due: completare il piano per intascare i soldi del Recovery Fund europeo e il contestuale varo delle riforme condizionali: prima fra tutte la legge sulla concorrenza. Occorre, tuttavia, segnalare che, tra le 51 azioni sbandierate a suo tempo, non c’è nulla per il Mezzogiorno neanche tra le successive 126.

Ebbene, se per il primo obiettivo la strada per il governo è stata perlopiù in discesa, trattandosi di spartire dei soldi, seppure a debito, il secondo obiettivo s’è rivelato una completa debacle. Rispondere con sincerità a questa domanda è un passaggio indispensabile da compiere per chiunque desideri, davvero, cercare una via di uscita da indicare al Paese. E per tentare di evitare il prevedibile conflitto e  la rabbia generata dalla prolungata regressione economica e sociale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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