Niente da fare per un trentenne di Foggia, al quale, il 4 giugno 2024, la Corte d’Appello di Bari ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata in relazione all’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari – dal 29 ottobre 2019 al 20 aprile 2020 (data di assoluzione con sentenza del Gup presso il Tribunale di Foggia perché il fatto non costituisce reato, divenuta irrevocabile il 16 ottobre 2020) – a seguito dell’arresto compiuto nei suoi confronti in flagranza per il reato. Complessivamente era rimasto ai domiciliari per 5 mesi e 20 giorni. La Corte d’appello aveva ritenuto che la domanda non potesse essere accolta, attesa la sussistenza del presupposto ostativo rappresentato dalla colpa grave del ricorrente.
Anche la Corte di Cassazione, con sentenza pubblicata il 2 gennaio scorso, ha ritenuto inammissibile il ricorso del ricorrente. Nel provvedimento, in premessa, l’organo giurisdizionale evidenzia che in tema di riparazione per ingiusta detenzione costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo la sussistenza di un comportamento – da parte dell’istante – che abbia concorso a darvi luogo con dolo o colpa grave.
Tra le altre cose – si legge – il giudice deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico. Il giudice di merito deve rilevare se la condotta tenuta dal richiedente abbia ingenerato o contribuito a ingenerare, nell’autorità procedente, la falsa apparenza della configurabilità della stessa come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto.
Il diritto all’indennizzo spetta a chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile di assoluzione con una delle formule indicate nella prima parte dell’art. 314 del codice di procedura penale. Non ha rilievo se a tale formula il giudice penale sia pervenuto per la accertata prova positiva di non colpevolezza, ovvero per la insufficienza o contraddittorietà della prova.
Arresto e assoluzione
Il commerciante, nel mese di ottobre del 2019, aveva acquistato un’ingente quantità di infiorescenze di marijuana – pari a circa 100 chilogrammi – detenendola ai fini di una successiva commercializzazione e omettendo di accertare preventivamente – in violazione della disciplina di settore e a tanto provvedendo solo successivamente commissionando un’analisi di laboratorio – l’effettiva quantità di principio attivo esistente nel materiale.
Era stato assolto quando era stato accertato che dei nove reperti raccolti dalla polizia giudiziaria, cinque erano idonei al ricavo di 3.581 dosi medie droganti; avendo ritenuto il Gup, che in considerazione di tale dato, non potesse porsi in dubbio la finalità di commercializzazione del predetto stupefacente, ricavato all’esito di un’attività di coltivazione, peraltro ammessa dallo stesso imputato e in riferimento alla dedotta liceità della vendita della cannabis light.
Il giudice dell’udienza preliminare aveva assolto l’imputato ritenendo dubbia la sussistenza del dolo del reato ascrittogli, alla luce del dibattito giurisprudenziale che aveva preceduto l’arresto espresso da Sezioni Unite del 30 maggio 2019 e della conseguente e ritenuta scusabilità dell’errore di diritto circa la liceità della propria condotta in considerazione delle precedenti incertezze interpretative.
Il punto della Corte territoriale
Sul punto, come sottolineato dalla Corte territoriale, al momento dell’effettuazione dell’acquisto della sostanza era stata già pronunciata la citata sentenza delle Sezioni Unite, la cui motivazione era stata depositata il 10 luglio 2019; con la quale la Corte aveva espresso il principio in base al quale la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui all’art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche a fronte di un contenuto di Thc inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge 2 dicembre 2016, n. 242, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.
Avendo altresì la Corte, nella motivazione, rilevato espressamente che meritasse condivisione l’orientamento giurisprudenziale che, muovendo dal rilievo che «la legge 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per le finalità espresse e tassativamente indicate dalla novella, ha affermato che la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309» e «che non si rinviene alcun dato testuale, né alcuna indicazione di ordine sistematico, […] che possa giustificare la tesi – che pure è stata espressa – volta far rientrare le inflorescenze della canapa nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo»
La Corte, in ulteriore passaggio motivazionale, ha evidenziato che la normativa prevede «che vengano effettuati controlli sulle coltivazioni di canapa, rientranti nel delineato settore agroalimentare, mediante il prelevamento di campioni provenienti da colture in pieno campo, ai fini della determinazione quantitativa del contenuto di tetraidrocannabinolo.
Ha quindi esposto che il ragazzo aveva comunque tenuto la condotta per la quale era stato sottoposto alla misura cautelare in un momento in cui la sentenza delle Sezioni Unite era stata già emessa e depositata, omettendo di tenere una condotta prudente, mancando di notiziare preventivamente gli organi locali di polizia al fine di far analizzare il campione della sostanza stupefacente oggetto di coltivazione; anzi acquistando un ingente quantitativo di marijuana, pari a circa 100 kg, allo scopo di procedere direttamente alla rivendita del prodotto.
Il ricorso per Cassazione
Secondo il legale difensore, sin dall’inizio la condotta del suo assistito sarebbe state scevra da dolo o colpa, avendo, già nell’immediatezza dell’arresto, fornito adeguata giustificazione della detenzione delle piante e dell’altro materiale rinvenuto, fornendo ulteriori spiegazioni in sede di udienza di convalida.
Aveva esposto di essere titolare di un’attività commerciale che si occupava della diffusione anche della canapa light, avendo acquistato le piante da un’azienda agricola da cui si riforniva abitualmente, fornendo molteplici elementi documentali tra cui i test di laboratorio effettuati a proposito del principio attivo esistente nel materiale acquistato; depositando poi, in sede di giudizio abbreviato, una consulenza di parte dalla quale risultava che molti dei campioni di materiale presentavano una soglia di principio attivo inferiore allo 0,5%; ha quindi dedotto che, nel caso di specie, difettava totalmente l’elemento soggettivo del reato contestato e che la condotta non poteva ritenersi connotata neanche da colpa grave.
L’avvocato ha sottolineato altresì come la pronuncia delle Sezioni Unite fosse stata depositata nel solo mese di luglio del 2019 e come il tecnico di laboratorio avesse assicurato il rispetto delle soglie imposte dalla legge. Ha quindi ritenuto illogica la motivazione, nella parte in cui aveva posto a carico del ricorrente un obbligo informativo in tale senso, attesi i controlli e le comunicazioni regolarmente effettuate.
Le conclusioni
Nel caso di specie, viene rilevato che il ricorrente risulta avere detenuto, ai fini della commercializzazione, materiale nel quale è stata ravvisata la sussistenza di una percentuale di principio attivo con efficacia drogante (sottoposto a successiva confisca) e che, in riferimento a cinque dei reperti citati nella stessa consulenza tecnica di parte, depositata in sede di giudizio abbreviato, erano ricavabili ben 3.581 dosi droganti.
In relazione alla deduzione difensiva in base alla quale non poteva ravvisarsi un obbligo informativo a carico del ricorrente in ordine agli orientamenti sul punto della giurisprudenza di legittimità, appare logica la valutazione della Corte territoriale nella parte in cui ha argomentato che l’istante fosse un professionista dello specifico settore, titolare di un’attività nel settore del giardinaggio e già uso alla commercializzazione della cannabis.
Va quindi ritenuta congrua e conseguente la valutazione della Corte nella parte in cui ha ritenuto sussistente un grave deficit comportamentale in capo al ricorrente, idoneo a ‘comprovare’ un colpa grave ostativa rispetto al riconoscimento dell’indennizzo.
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