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Saldo e stralcio

 


Si è insediato in settembre il nuovo Advisory Board Territoriale di UniCredit Lombardia. Presieduto da Antonio Calabrò, senior vice president Pirelli per la cultura e direttore di Fondazione Pirelli, vede alla vice presidenza Andrea Camesasca, amministratore del Rural Resort “Il Corazziere” ed è partecipato da Elia Bonacina, 33 anni, presidente e ceo di Bonacina 1889, storica azienda di design a Lurago d’Erba.

Come interpreta il suo ruolo all’interno del Board della banca lombarda?

Mi hanno chiamato ed è stata una sorpresa: credo di essere il più giovane all’interno dell’Advisory Board, forse il più giovane di sempre. Ho accettato l’offerta con entusiasmo perché anche attraverso questo ruolo ho modo di continuare a perseguire l’obiettivo che più mi sta a cuore: la valorizzazione delle piccole e medie imprese che rappresentano il vero valore del nostro territorio.

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Le nostre aziende familiari possono crescere e diventare grandi per poter sostenere le sfide globali ma perché questo avvenga è fondamentale che le banche siano in grado di comprendere la loro realtà e di supportare le piccole imprese culturalmente e finanziariamente. Nel nostro Paese la cultura del debito è lacunosa, insufficiente. Ci si appoggia troppo a sistemi di autofinanziamento degli imprenditori e quando le risorse si esauriscono, si rischia di fermarsi.

Negli altri Paesi cosa avviene in termini di sostegno agli investimenti?

In Germania, per esempio, ci sono collaborazioni più strette tra il sistema bancario e le imprese, mentre in Italia le banche sembra che siano meno predisposte a questo legame e richiedono che le aziende siano già consolidate prima di offrire supporto, ma questo non è un approccio efficace. Il mio obiettivo è riorganizzare e migliorare l’approccio delle banche verso le Pmi. Sto analizzando con il team di Unicredit l’importanza di far interagire le diverse competenze interne perché possano essere utili a tutte le aziende, inclusi i piccoli imprenditori, e non solo a quelle con fatturati superiori alla soglia dei 50 milioni di euro.

Fa riferimento alla rinascita di Bonacina 1889?

È fondamentale smettere di aspettare che le piccole imprese si autofinanzino o diventino grandi da sole. Ho esperienza diretta di questo fenomeno: quando la mia azienda era ancora piccola, cercai supporto da diverse banche, ma nessuna riteneva opportuno investire in un’impresa della mia dimensione. Sarebbero state disponibili solo se fossi stato già grande e consolidato. Alla fine, ho dovuto fare da solo e, dopo anni di autofinanziamento, UniCredit ha capito il nostro modello di business e ci ha sostenuti. Ho trovato persone in grado di vedere il potenziale e di comprendere la nostra visione. Questo approccio non è solo finanziario; è capire che le Pmi possono evolversi attraverso la giusta assistenza, anche se oggi vivono sotto la pressione delle normative fiscali che rendono difficile la crescita.

Condivide l’idea che le piccole imprese costituiscono l’ecosistema economico del territorio?

In Italia i piccoli artigiani e le microimprese sono come startup, anche se molte esistono da generazioni. È stato dimostrato che l’aggregazione di piccole realtà non ha sempre funzionato; piuttosto, credo nel valorizzare lo sviluppo singolo di ciascuna impresa. Ogni azienda ha caratteristiche uniche; l’artigianato, la meccanica, il design richiedono un approccio personalizzato. Inoltre, molte Pmi, nonostante non generino grandi utili, sono solide, hanno capannoni di proprietà e una storia di gestione responsabile. È errato escluderle dai circuiti di finanziamento solo perché non soddisfano determinati criteri di fatturato immediato.

Le aziende meno strutturate però rappresentano un maggiore fattore di rischio per le banche, non è così?

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La gestione del rischio deve includere una visione olistica dell’imprenditore e della sua azienda, non limitarsi ai numeri. Credo che i piccoli imprenditori portino con sé un forte senso di responsabilità verso le proprie aziende. La vera sfida per le banche è capire chi merita fiducia e supporto e ciò può avvenire solo attraverso una valutazione approfondita delle persone e delle situazioni aziendali. È importante riportare le banche alle loro radici, magari proprio focalizzandosi sulle Pmi, anziché concentrarsi solo su grandi aziende. Molte piccole e medie imprese restano stabili e più affidabili di alcuni attori di grosso calibro e, come ho già detto, chi gestisce un’azienda piccola ha tutto l’interesse a farla prosperare in un territorio che conosce bene.

In sintesi, le banche devono rivedere i loro approcci e tornare a sostenere le Pmi, riconoscendo il potenziale che queste hanno per contribuire all’economia del paese. Ogni imprenditore, grande o piccolo, porta un valore unico e una storia di passione e impegno. È ora che il sistema bancario ne prenda atto e agisca di conseguenza.

Pensando a Bonacina 1889 e al suo recente sviluppo, un aumento dimensionale ha permesso di poter gestire meglio alcune sfide come, per esempio, l’approvvigionamento delle materie prime?

Sì, anche se non è mai stato un problema per noi perché nelle aree di riferimento per il nostro prodotto la situazione è tranquilla e non ci sono difficoltà. Noi importiamo midollino dal sud est asiatico dove abbiamo un consolidato rapporto di fiducia con i microimprenditori locali, che accolgono e lavorano la materia prima. Inoltre, nelle zone più rurali, anche durante la pandemia, il costo delle materie prime non è aumentato. Chi vive lì non era nemmeno a conoscenza della speculazione, il che evidenzia come sia stata artificiale. Certo, ci sono alcuni costi aggiuntivi legati ai trasporti, ma non giustificano gli incrementi esorbitanti che abbiamo osservato per altri materiali.

C’è però in atto un fenomeno di deglobalizzazione, cosa ne pensa?

Credo che ci sarà sempre una base di connessione che continuerà e permetterà di collaborare. Probabilmente sarebbe necessario rallentare questa frenesia che spinge grandi banche e stati a finanziare gruppi industriali che aprono stabilimenti dall’altra parte del mondo, con risultati discutibili. Per il resto alcuni esperimenti per rendersi sempre più autonomi sono già stati fatti. Per le nostre produzioni immaginiamo di creare un microclima all’interno di un capannone in modo da coltivare la materia prima, ispirandosi al caffè coltivato in maniera verticale. Non si sa cosa il futuro possa riservarci. Notiamo un crescente desiderio di lavorare con piccole e medie imprese a gestione familiare, dove si possono costruire relazioni umane e superare le differenze culturali e religiose e in questo modo avviare sperimentazioni in modo più flessibile rispetto ai grandi gruppi.

Il futuro è quindi delle piccole e medie imprese, giovani e agili, capaci di fare sistema tra loro?

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Penso che le relazioni personali si intensificheranno sempre di più tra nazioni e imprenditori. Sarà più probabile che qualcuno scelga di lavorare con un’azienda più piccola, che offre un incentivo economico e rapporti migliori, anziché con una grande azienda dove la comunicazione è impersonale e sconnessa. In questa nuova realtà, l’Italia ha la grande opportunità di giocare una partita a suo favore, grazie alla sua tradizione di piccole e medie imprese che valorizzano l’approccio personale e la serietà nel lavoro. Questo è l’ambito dove possiamo essere più competitivi, mentre gli anglosassoni e gli americani tendono a creare modelli standardizzati, difficilmente replicabili in contesti con relazioni personali forti.



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