Tantissimi clienti o dirigenti chiedono a noi comunicatori come misurarci, il loro cruccio è come possono valutare il nostro operato, come dare un peso al nostro compenso.
Ma le relazioni pubbliche, la comunicazione in genere, possono essere misurati, una sorta di tot al chilo? Risponderei ben volentieri facilmente, anche perché sarebbe anche così facile tirar fuori un prezzo per una consulenza, per uno stipendio, ma purtroppo non lo è, come non è facile dare un peso all’immagine e alla reputazione aziendale, che sono parte del risultato del nostro lavoro.
Nell’era digitale in cui viviamo, le relazioni pubbliche stanno vivendo una fase di profonda trasformazione. La nascita di nuovi canali di comunicazione, l’evoluzione dei comportamenti dei consumatori e la crescente importanza della reputazione aziendale hanno reso sempre più cruciale per i professionisti delle PR monitorare e misurare in modo efficace l’impatto delle loro attività.
Questa operazione si rivela spesso complessa e piena di insidie e in questo articolo cerco di fare una disamina.
In passato, le metriche tradizionali come l’equivalente pubblicitario (AVE) o il numero di visitatori unici mensili (UVPM) erano considerate sufficienti per valutare il successo delle campagne di PR. Oggi però, in un contesto mediatico frammentato e in continua evoluzione, affidarsi solo a questi indicatori rischia di fornire una visione parziale e fuorviante. Le menzioni ottenute tramite le Relazioni Pubbliche non possono essere paragonate semplicisticamente alla pubblicità a pagamento: i consumatori tendono infatti a fidarsi maggiormente dei contenuti redazionali rispetto agli annunci pubblicitari. Inoltre, le menzioni hanno sfumature qualitative che l’AVE non è in grado di cogliere, tenendo conto che una menzione in un contesto allargato ad altri soggetti, è significativamente ben diverso da un contenuto dedicato.
Per avere un quadro più completo è necessario quindi considerare una gamma più ampia di metriche, andando oltre gli aspetti puramente quantitativi. Certamente il volume complessivo delle menzioni rimane un dato rilevante, perché consente di prevedere picchi e cali di copertura e pianificare di conseguenza. Ma ciò che conta davvero è l’impatto che quelle menzioni hanno poi avuto in termini di conversioni e comportamenti concreti del pubblico. Non basta fare “rumore”, occorre valutare attentamente cosa è successo dopo aver ottenuto visibilità.
Un aspetto sempre più centrale è rappresentato dall’amplificazione attraverso i social media, tenendo conto che spesso succede che un contenuto parte dai social media per andare su altri media e non al contrario come avveniva tempo fa. Monitorare come gli utenti interagiscono con i contenuti della propria azienda sulle piattaforme social diventa fondamentale per capire il livello di engagement generato. Identificare le tematiche che suscitano maggior interesse e coinvolgimento fornisce spunti preziosi per orientare le strategie future. Allo stesso modo, individuare i giornalisti e le testate che ottengono più condivisioni e reazioni può aiutare a capire su chi vale la pena concentrarsi.
Un altro indicatore chiave è il traffico web di riferimento generato dalla copertura mediatica. Quante persone sono arrivate sul sito aziendale direttamente grazie alle menzioni sui media? E una volta lì, quali azioni hanno compiuto? Esaminare questi dati permette di mappare l’intero percorso dell’utente e capire quali pubblicazioni e articoli si sono rivelati più efficaci nel generare contatti qualificati.
Fondamentale è poi analizzare il sentiment, ossia il tono complessivo delle conversazioni che riguardano il brand e i suoi competitor. Il monitoraggio del sentiment può far emergere punti di forza e di debolezza, aree di miglioramento e iniziative dei concorrenti da cui trarre ispirazione. Strettamente collegata è la share of voice, ossia la percentuale di menzioni ottenuta rispetto ai competitor: un parametro utile per capire il proprio posizionamento.
Tuttavia, per quanto sempre più sofisticate, queste metriche da sole non bastano. Interpretare correttamente i dati raccolti richiede la capacità di leggerli in modo olistico, cogliendo le interconnessioni tra i vari indicatori. Soprattutto, occorre saperli contestualizzare rispetto agli obiettivi di business e di comunicazione prefissati. Solo così il monitoraggio diventa davvero strategico.
Ecco perché il primo passo per impostare un efficace sistema di misurazione è proprio la definizione di obiettivi chiari e misurabili, allineati con quelli degli stakeholder interni ed esterni. Solo avendo un riferimento preciso è possibile identificare le metriche più adatte e focalizzare gli sforzi. In questa fase è cruciale anche il coordinamento con altri team come marketing e social media, per garantire che tutti remino nella stessa direzione.
Una volta stabiliti gli obiettivi e le metriche, si tratta di mettere in campo gli strumenti e le risorse necessarie per tracciare costantemente i risultati. Se da un lato esistono soluzioni gratuite che possono soddisfare alcune esigenze di base, dall’altro può risultare opportuno investire in piattaforme o agenzie specializzate che offrano funzionalità di monitoraggio più avanzate.
Questo è quello che sta alla base della media intelligence.
Il processo, comunque, non si esaurisce qui. I dati raccolti vanno poi analizzati con cadenza regolare per trarne insight, valutare i progressi rispetto agli obiettivi e identificare aree di ottimizzazione. Bisogna capire cosa funziona e cosa no, esaminare le best practice dei concorrenti, mappare i media e i giornalisti che seguono il proprio brand e quelli più vicini ai competitor, oltre allo studiare il comportamento degli utenti/clienti, che è il vero “must” dell’era digitale. È un’attività che richiede capacità di analisi e pensiero critico, ma che può aprire a spunti di miglioramento e nuove opportunità.
Sulla base delle evidenze emerse, è necessario quindi mettere in atto un processo iterativo di perfezionamento: affinare le strategie, rivedere eventualmente gli obiettivi, testare nuove tattiche. E poi monitorare di nuovo, con metodo e costanza, per valutare l’impatto dei cambiamenti apportati e innescare un circolo virtuoso di miglioramento continuo.
Attuare un approccio così strutturato al monitoraggio e alla misurazione delle PR richiede certamente impegno e dedizione. Ma nell’era digitale, in cui la reputazione di un brand si costruisce in una miriade di touch point e la comunicazione è sempre più data-driven, non è più un aspetto accessorio. Diventa un elemento imprescindibile per ottimizzare le risorse, dimostrare il valore del proprio lavoro e guidare le decisioni strategiche.
Solo integrando metriche quantitative e qualitative, affinando costantemente le proprie capacità analitiche e agendo in modo agile e flessibile, i professionisti delle PR possono davvero comprendere e massimizzare l’impatto del loro operato. Una sfida complessa, ma anche un’opportunità per evolvere il proprio ruolo e incidere concretamente sul business. Perché in fondo, come recita un celebre aforisma, “ciò che può essere misurato, può essere migliorato”. E nel dinamico scenario odierno, per i comunicatori è un imperativo da cui non si può prescindere.
Enzo Rimedio
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