Il pubblicista Gideon Levy mi ha preceduto. In un recente editoriale dal titolo Auschwitz. Haag. Netanyahu sul quotidiano Haaretz ha affrontato un tema al quale anch’io volevo fare riferimento nel mio editoriale. Quindi inizierò citando Levy.
«Il primo ministro Benjamin Netanyahu – scrive – non si recherà in Polonia il mese prossimo per la cerimonia principale dell’80° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, per il timore di essere arrestato sulla base del mandato emesso nei suoi confronti dalla Corte penale internazionale de L’Aia. Questa amara e non troppo sottile ironia della storia fornisce un intreccio surreale che era quasi inimmaginabile prima d’ora: basta immaginare il primo ministro che atterra a Cracovia, arriva all’ingresso principale di Auschwitz e viene arrestato dalla polizia polacca al cancello, sotto la scritta Arbeit macht frei».
Prosegue: «Il fatto che tra tutti i luoghi del mondo Auschwitz sia il primo in cui Netanyahu teme di andare grida simbolismo oltre che giustizia storica». Levy fa notare plasticamente: «Una cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione di Auschwitz, i leader mondiali marciano in silenzio, gli ultimi sopravvissuti in vita marciano al loro fianco e il posto del primo ministro dello Stato sorto dalle ceneri dell’Olocausto è vuoto. È vuoto perché il suo Stato è diventato un paria e perché è ricercato dal più rispettato tribunale che giudica i criminali di guerra». Levy conclude: «Netanyahu non sarà ad Auschwitz perché è ricercato per crimini di guerra».
QUESTO “evento” in effetti è paradigmatico. Ma a prescindere dal fatto che circa la metà della popolazione israeliana si augura il tramonto politico di Netanyahu, che molti sperano anche che alla conclusione del processo finisca in carcere, e che pur avendo commesso così tanti crimini (anche all’interno di Israele) si capisce l’odio nei suoi confronti (e della sua famiglia), Netanyahu stesso è solo un personaggio secondario in ciò di cui parla Gideon Levy.
Spesso a persone di basso rango viene cinicamente attribuita la responsabilità di errori e reati che sono stati causati o iniziati «in alto» nel rispettivo ordine gerarchico. Con sarcastico riferimento alla gerarchia militare, in Israele ha preso piede lo slogan della colpa della «guardia davanti all’ingresso dell’accampamento militare».
Ma la situazione è diversa quando viene condannata una prassi sociale o politica per la quale tuttavia non si può penalizzare un’intera collettività (come è diventato possibile ed è stato compiuto per accordo internazionale con il boicottaggio dello Stato di apartheid sudafricano). In questo caso il rispettivo capo di stato o altri funzionari di alto rango vengono chiamati a rispondere in rappresentanza simbolica dell’intera collettività. Condannando Netanyahu è stato condannato Israele.
Questo va messo in rilievo perché la responsabilità ministeriale per crimini di guerra è delle istituzioni dominanti, ma ha in genere un carattere più astratto. La barbarie (fisica) del crimine si compie invece «sul campo». In quanto governante, Netanyahu ha la responsabilità della politica da lui delineata e disposta e quindi degli orientamenti militari che ne derivano nell’attuale guerra.
Anche se rifiuta costantemente di assumersi qualsiasi responsabilità, soprattutto per il disastro del 7 ottobre, non sono però necessariamente sue le istruzioni che hanno generato i crimini di guerra concreti. Qui va considerato qualcos’altro. Perché ciò che si è visto nelle operazioni dell’Idf nella Striscia di Gaza nell’ultimo anno è un estremo abbrutimento delle truppe di combattimento in azione, i cui crimini di guerra si sono accumulati/si accumulano in una misura tale che ben presto si è iniziato a parlare di un genocidio nei confronti della popolazione civile della Striscia di Gaza.
IL DIBATTITO se si tratti effettivamente di un genocidio sia lasciato ad altra sede; la disputa divampata non fa che distrarre dalla sostanza – dal vistoso imbarbarimento dell’esercito israeliano e della sua attività bellica. È sufficiente focalizzarsi sull’accumulo di crimini di guerra per comprendere che in questa guerra si è dispiegato qualcosa che va ben oltre la persona di Netanyahu. È diventata norma una pratica di combattimento che ha reso «una cosa ovvia» un numero inconcepibile di civili morti e feriti, tra loro soprattutto donne, bambini e persone anziane, e una mostruosa devastazione delle infrastrutture e distruzione di strutture civili vitali.
In questa guerra si è dispiegato qualcosa che va ben oltre la persona di Netanyahu. È diventata norma una pratica di combattimento che ha reso «una cosa ovvia» un numero inconcepibile di civili morti e feriti
Di recente in un articolo sulla ricerca del dottor Lee Mordechai della Hebrew University di Gerusalemme ho scritto che l’accusa di aver commesso crimini di guerra è provata da tempo e che nessuno in seguito potrà affermare di non averlo saputo. Che i media mainstream nascondano alla popolazione del Paese i rapporti sulla barbarie praticata in suo nome, che praticamente la mascherino, non può essere accettato come spiegazione per il pubblico silenzio sui crimini – chi vuole sapere può venire a conoscenza di tutto. Naturalmente bisogna voler sapere.
Anche la «giustificazione» dei crimini di guerra nei confronti di ebrei israeliani commessi con il pogrom del 7 ottobre, non ha una base accettabile se si rifiuta che sia legittimo mettere l’esercito al servizio di pulsioni collettive di vendetta e rappresaglia. L’uccisione di bambini da parte di un esercito (come «danno collaterale») non può essere «riparazione» per un torto subito. Meno che mai se i suoi effetti crescono fino a una sproporzione così eclatante.
Ciò che risalta più di ogni cosa è il gusto, il sadismo e il malvagio piacere del danno altrui da parte di soldati, per una strage che stenta a volersi concludere. Il 7 ottobre è stato degradato a licenza per una distruzione eccessiva e per la cancellazione di vite umane senza alcuna remora. In nessuna guerra i soldati sul campo sono stati apostoli di umanità. Già Brecht nell’Opera dei Tre soldi faceva cantare che «i soldati abitano sui cannoni» e solitamente trasformano i loro nemici in una «bella tartare».
Per la popolazione civile nemica diventa particolarmente terribile quando vengono impiegati in modo massiccio bombardieri moderni. Ma ciò che sul campo di battaglia può essere spiegato a partire dalla logica interna di ciò che la guerra nella sua essenza è sempre stata – la legittimità concessa alla completa disinibizione nell’uccidere e devastare le condizioni di vita materiali – fa rabbrividire se emerge che un’intera collettività sostiene i crimini del proprio esercito nazionale.
Quel poco che la popolazione israeliana ha saputo dell’orrore della realtà di Gaza è stato (e viene tutt’oggi) rigettato con spaventosa indifferenza come non vero, come esagerazione, come perfida propaganda dell’altra parte o razionalizzata a cuor leggero attribuendo le colpe per i crimini di guerra agli stessi abitanti di Gaza («hanno iniziato loro»), oppure si dichiara apertamente di non essere in grado di provare compassione per loro.
Sia l’abbrutimento dei soldati sia l’indifferenza della popolazione civile israeliana derivano da una disumanizzazione dei palestinesi che da tempo si dispiega incessantemente. 57 anni di barbarie dell’occupazione e la persistente cancellazione del conflitto israelo-palestinese dall’agenda politica di Israele e del mondo (come portata avanti intenzionalmente soprattutto da Netanyahu) hanno mostrato il loro inevitabile effetto. La vita umana palestinese per la maggior parte degli ebrei israeliani non vale molto, meno che mai dopo il 7 ottobre e meno ancora quando si tratta degli abitanti di Gaza che dall’attuale governo israeliano vengono definiti nella loro quasi totalità come terroristi di Hamas.
UN’EQUIPARAZIONE della catastrofe di Gaza con Auschwitz non è sostenibile – la rigetta anche Gideon Levy nel suo editoriale. Ma non è questo il punto. Per troppo tempo la politica israeliana ha strumentalizzato la singolarità di Auschwitz per scopi politici eteronomi. Dalla Shoah non si può trarre insegnamento, neanche quello del postulato ideologico di quanto fosse necessario creare un «rifugio per il popolo ebraico», come ora dovrebbe essere diventato evidente.
Sia l’abbrutimento dei soldati sia l’indifferenza della popolazione civile israeliana derivano da una disumanizzazione dei palestinesi che da tempo si dispiega incessantemente
Semmai, dalla Shoah, si potrebbe far derivare come messaggio astratto unicamente il principio guida di una società impegnata a minimizzare se non a rendere impossibile che degli esseri umani continuino a produrre vittime umane. Questo potrebbe essere ciò che Walter Benjamin intendeva con il «debole potere messianico» che viene attribuito a ogni generazione presente in relazione a generazioni passate.
E proprio in questo si manifesta l’orrendo tradimento che Israele (non solo adesso, ma ora con una smisuratezza di sua scelta) ha commesso nei confronti della memoria di Auschwitz. E in questo, esattamente in questo, sta la spaventosità del simbolo che il primo ministro israeliano non parteciperà alla cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione di Auschwitz perché deve temere di essere arrestato come quel criminale di guerra che in quanto rappresentante di Israele è.
Pubblicato in origine su Overton Magazin. Traduzione a cura di Sveva Haertter e Helena Janeczek
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