L’ultimo anno di Milano, un anno non ancora entrato nella storia, potrebbe riassumersi in una inchiesta giudiziaria (quattordici fascicoli aperti dalla Procura) che vorrebbe denunciare gravi abusi nello sviluppo verticale di una città, che ha scelto di alzare il proprio profilo attraverso grattacieli, ciascuno fonte di opulente rendite fondiarie, e che ha di nuovo cercato nel “mattone” (ormai vetro, cemento, acciaio) le occasioni del suo sviluppo, come molte altre volte in passato.
Quale potrebbe essere l’esito del lavoro della magistratura non si sa (ovvero lo sa il “Fatto” di Travaglio, che ha già condannato senza appello il sindaco e i suoi assessori). Il “salva Milano” di cui la politica discute (dalla Lega al Pd) potrebbe coprire il malgoverno della pubblica amministrazioni oppure soltanto correggere la cattiva interpretazione di una legislazione confusa e la debolezza di una politica urbanistica che rinuncia al progetto pubblico e al controllo.
Gira e rigira, siamo sempre al “mattone”, principio nei secoli dei secoli di ogni arricchimento e della crescita, dell’espansione della città: a cavallo tra Otto e Novecento, in epoca fascista, quindi nel dopoguerra della ricostruzione, infine oggi…
Una buona stagione
Con alcune eccezioni comunque, scritte ormai in un storia secolare: perché Milano poteva vantare nel campo, ben più di un secolo fa, a partire dalla stagione in cui, tra diciannovesimo e ventesimo secolo, si andava affermando la grande moderna impresa, iniziative dal forte sapore sociale, come dimostrano le diverse realizzazioni nel segno della “casa operaia”.
Fosse una cultura di ispirazione cattolica o socialista o semplicemente filantropica , fossero il calcolo e la ricerca utilitaristici del bene comune, contro ogni pericolo di rivolta in una società industriale, sta di fatto che il panorama cittadino era andato arricchendosi di quartieri nati per migliorare le condizioni di vita delle classi meno abbienti, non senza discussioni e contrasti tra chi la città doveva governare e chi teneva le redini dell’economia. Come racconta un prezioso libro, “Milano. Matrici e metamorfosi di una capitale industriale” (Mimesis, pagine 280, 24 euro), autore Giorgio Bigatti, docente di Storia economica alla Bocconi e direttore scientifico della Fondazione Isec, istituto per la Storia dell’età contemporanea.
La “questione delle abitazioni”, in un periodo di espansione delle capacità e delle “ambizioni” produttive, perciò di forte immigrazione, si era da tempo posta con i caratteri dell’emergenza. Una indagine promossa dal Comune aveva rivelato che il trenta per cento della popolazione milanese viveva in appartamenti di una stanza, in condizioni igieniche e di sovraffollamento spaventose, una situazione non solo umanamente penosa ma pure ben poco funzionale rispetto alle mire efficientiste e moderniste dell’impresa industriale, possibile ragioni di forti tensioni.
L’Umanitaria e il quartiere Solari
Il dibattito, se fosse o meno opportuno “un intervento pubblico in una materia prettamente economica”, si risolse allora con la creazione, proposta da una giunta democratica presieduta dal sindaco Giuseppe Mussi e secondo il piano presentato dall’assessore socialista e futuro sindaco Emilio Caldara, di una azienda pubblica per le case popolari. Primo finanziamento: quattro milioni… In una scena di nuove sensibilità e di esigenze proclamate entrarono in campo, accanto alla pubblica amministrazione, altri attori e tra questi, soprattutto, la Società Umanitaria, istituzione storica, fondata nel 1893, grazie al lascito testamentario di Moisè Loria, mecenate di origine mantovana: “umanitaria”, per il valore di un’assistenza concreta, a sostegno dello studio, dell’istruzione, del lavoro.
Proprio la Società Umanitaria promosse nel 1908 la costruzione di un quartiere popolare, il Quartiere Solari. Case dotate di servizi igienici, di acqua potabile, di gas e di luce elettrica e poi, per tutti i residenti, erano a disposizione spazi collettivi, biblioteca, lavatoi, università popolare, teatro, scuole professionali… Un quartiere, la cui nascita, nel segno di una cultura profondamente riformista e di una responsabilità civile collettiva, rappresenta, secondo Giorgio Bigatti, uno dei casi paradigmatici nella storia di Milano.
La Galleria De Cristoforis
Altri il racconto ne individua, a cominciare dalla “invenzione” della Galleria De Cristoforis, la “contrada de veder”, cioè la contrada del vetro, una galleria vetro e ferro, inaugurata nel 1832 (per chi conosce Milano, tra corso Vittorio Emanuele e corso Matteotti), scomparsa per lasciare il posto alla più monumentale Galleria Vittorio Emanuele.
Ma la Galleria De Cristoforis, modellata sugli esempi dei Passages parigini o della Burlington Arcade londinese, aveva qualcosa di speciale per l’epoca. “L’edificio – citiamo Bigatti – con le sue sessanta ‘agiate botteghe’, un elegante caffè, un albergo e numerosi appartamenti d’abitazione, era la prefigurazione di una città diversa. A conferire all’insieme un’aura speciale, l’incanto della novità, contribuivano i grandi specchi, la copertura vetrata sostenuta da canaletti di ferro combinati con viti di ottone, l’illuminazione a gas…”.
A giustificare un “primato” simbolico alla Galleria De Cristoforis è l’intraprendenza, visionaria si potrebbe argomentare, di alcuni imprenditori, i fratelli Luigi e Vitaliano De Cristoforis insieme con il cugino Giovan Battista, insieme con altri finanziatori milanesi, è la loro lungimiranza (anche nel recepire e nel rappresentare la forza del connubio industria-commercio) ed è, cogliendo il valore di esempi internazionali, il ricorso a modelli e tecnologie del tutto innovativi.
In questo senso la Galleria è la realizzazione di una propensione cittadina verso l’Europa e verso la modernità che l’Europa proponeva. Valeva lo scambio, come documenta in più parti del suo saggio Bigatti, tra una realtà dinamica, come quella milanese, e il peso di capitali e competenze tecniche, come quelle che altri paesi europei (in particolare Svizzere a Germania) potevano proporre.
La piccola Montparnasse
Terzo caso paradigmatico “via Rugabella”, cioè la nostra “piccola Montparnasse”, per una serie di coincidenze “via degli artisti”, dove negli anni Trenta del secolo scorso abitarono, tra gli altri Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Piero Bottoni, Marino Marini, Domenico Cantatore, Giuseppe Pagano, Giacomo Manzù, Albe e Lica Steiner, Edoardo Persico… scrittori, artisti, urbanisti, architetti.
Coincidenze, chiamate in causa a giustificare la forza e la resistenza di Milano (anche nelle tetre giornate del regime fascista), grazie ad un humus intellettuale comunque vivo. Coincidenze che pur nella loro specificità (e nei loro limiti) esemplificano la ricchezza culturale di una città, che attraverso le sue università aveva saputo inoltrarsi prestissimo nei percorsi delle scienze umanistiche, scientifiche, economiche (dal Politecnico che “ereditò” il nome della rivista di Carlo Cattaneo, alla Bocconi, fondata nel 1902, in memoria del figlio Luigi, da Ferdinando Bocconi, inventore del primo grande magazzino italiano, nel 1880, “Alle città d’Italia”).
La ricchezza della diversità
Molto, moltissimo altro si potrebbe, o si dovrebbe dire, traendo spunto dal ricchissimo lavoro di Giorgio Bigatti (sul quale sarebbe opportuno riflettere in ragione del futuro). La sintesi potrebbe avvalersi di alcune, molte, parole. Ne salviamo una: diversità. Perché è nella diversità dei suoi saperi, delle sue attività, delle sue esperienze, che Milano ha trovato modo di superare inevitabili crisi e, per ultimo, la crisi della grande impresa, nell’era della deindustrializzazione. Non si è trasformata in un Detroit senza auto o in un distretto carbonifero senza carbone. Ha trovato la sua strada, per ora, nel terziario della finanza, nel turismo dei grandi/piccoli “eventi”, nei campi della formazione e, ancora, nel “mattone”. Immaginare per l’ennesima volta la sua capacità di “resistere” e quindi il suo futuro chiederebbe analisi coraggiose, spregiudicate e, magari, fantasiose, ancorate però tanto alla storia quanto al presente.
Credo che un modo per conoscere il “presente” di Milano potrebbe essere allontanarsene in treno, magari un treno dei pendolari, lasciando ad altre occasioni l’alta velocità.
Dentro il treno volti, colori, lingue rappresentano la nuova società milanese e italiana (sono 418mila gli immigrati extracomunitari nella città metropolitana, il 12,8 per cento sul totale dei residenti), al di là dei finestrini del treno è un susseguirsi di complessi residenziali, di residui di antichi borghi, di manufatti abbandonati, di scheletri di cemento armato, di palazzi di vetro che ospitavano uffici e ora nulla, di terreni incolti in quella periferia che confina con la campagna. Nell’intreccio di luoghi e di funzioni e di immagini, anche questa è Milano, anche queste sono “risorse” straordinarie, forse più di quelle esemplificate dall’overtourism, dalla moda, dal Fuorisalone dei mobili e del design, dalle affittanze brevi che espellono dalla città i suoi cittadini per comoda speculazione.
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