Effettua la tua ricerca
More results...
Mutuo 100% per acquisto in asta
assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta
Al contenimento del deficit si è giunti attraverso un aumento delle entrate legato soprattutto a una particolare categoria di contribuenti e a un taglio delle spese ottenuto con il vecchio sistema dell’accetta che cala ad occhi chiusi
Roberto Seghetti
Il governo ha tagliato il cuneo fiscale, ha ridotto a tre le aliquote Irpef ed ha allargato la platea delle partite Iva che possono pagare solo un forfait del 15 per cento, eppure la pressione fiscale è risultata in aumento nel 2024: la pubblicazione degli ultimi dati Istat sui conti trimestrali delle amministrazioni pubbliche e sui redditi e i risparmi delle famiglie ha provocato un puntuto dibattito sugli effetti reali della politica economica del governo di Giorgia Meloni.
La domanda che tutti si sono posti a questo punto è semplice: le tasse sono state tagliate o no? E perché, se sono state effettivamente ridotte le imposte, le entrate dello Stato sono cresciute? In altre parole: l’esito dei provvedimenti presi dal governo è stato quello narrato o si è invece rivelato diverso quando gli italiani hanno fatto i conti veri con gli euro effettivamente rimasti nelle proprie tasche?
Data la complessità della materia e l’intreccio di numerose implicazioni, non è possibile dare una risposta semplice, univoca. Da qui, il dibattito, le interpretazioni diverse e la necessità di andare ad approfondire e di sciogliere i nodi punto per punto per poter capire meglio che cosa sta accadendo nella realtà.
Perché è vero che le misure del governo hanno ridotto l’imposizione, ma non per tutti e non allo stesso modo, soprattutto non con lo stesso risultato per i diversi tipi di contribuente.
Primo passo, ricordare i dati dell’Istat che hanno generato questa discussione. Nei primi nove mesi dell’anno la stretta sul deficit ha funzionato: nei primi nove mesi del 2024 l’indebitamento netto è sceso al 4,6 per cento del Pil contro il 7,4 del 2023.
Il ministro Giancarlo Giorgetti è stato nominato ministro delle Finanze dell’anno da The Banker del Financial Times. Ma questo non significa che sia tutto rose e fiori. Anzi.
Sulla tenuta futura dei conti pubblici, su come si sia arrivati ai risultati di oggi, sulla distribuzione dei pesi tra i cittadini e sulla qualità delle manovre economiche si è aperta una severa discussione, che ha coinvolto la stessa presidente del Consiglio.
La ragione di questo dibattito è semplice: al contenimento del deficit si è giunti attraverso un aumento delle entrate legato soprattutto a una particolare categoria di contribuenti e a un taglio delle spese ottenuto con il vecchio sistema dell’accetta che cala ad occhi chiusi.
Le spese pubbliche sono in particolare diminuite del 2,1 per cento nei primi nove mesi del 2024, mentre le entrate pubbliche sono cresciute nello stesso periodo del 3,6 per cento, un effetto dovuto per larga parte alle maggiori tasse versate dai lavoratori dipendenti, il cui numero è lievitato negli ultimi 24 mesi.
Risultato: la pressione fiscale, cioè l’ammontare delle entrate fiscali dello Stato rispetto alla totalità del Prodotto interno lordo del paese, è salita al 40,5 per cento, lo 0,8 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Da qui, la domanda sui veri effetti della politica del governo. La risposta data dalla presidente del Consiglio è stata apparentemente chiara ma in realtà parziale e omissiva.
Giorgia Meloni ha infatti ricordato, vantandoli come risultati del proprio governo, che nonostante il taglio del cuneo fiscale il rinnovo di alcuni contratti di lavoro e soprattutto il notevole incremento del numero degli occupati ha portato un numero più elevato di stipendi nelle tasche degli italiani e, di conseguenza, più tasse sugli stipendi nelle casse dello Stato.
Vero? Solo in parte, per due motivi, più una riflessione che va fatta a questo proposito.
Il primo motivo: nel 2024 il taglio del cosiddetto cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti non ha prodotto una riduzione aggiuntiva del prelievo fiscale e contributivo sulle buste paga rispetto a quella già in vigore nel 2023.
Il secondo motivo: sui redditi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati l’inflazione, il rinnovo dei contratti e la parziale rivalutazione delle pensioni legata all’aumento dei prezzi al consumo ha fatto scattare la tagliola di quello che gli economisti chiamano il fiscal drag (poi vediamo quanto ha pesato e di che cosa si tratta).
Quanto alla riflessione, eccola: i dati confermano che l’aumento delle entrate è stato ottenuto per larghissima parte, ancora una volta, con il contributo degli stessi contribuenti, dipendenti e pensionati, che già assicuravano oltre l’85 per cento del gettito dell’Irpef.
Vediamo dunque, punto per punto, di chiarire di che cosa stiamo parlando.
Prima di spiegarne il meccanismo è utile fare un passo indietro e spiegare perché questa tagliola riguarda principalmente dipendenti e pensionati. Chiedo scusa in anticipo per la pazienza necessaria.
L’articolo 53 della Costituzione è rimasto di una chiarezza lampante: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Fin dai primi vagiti della Repubblica, però, alcuni redditi, per esempio quelli prodotti con l’investimento del capitale, sono stati esclusi dalla progressività, cioè dall’aumento del prelievo in relazione alla maggior ammontare delle somme da sottoporre a tassazione.
Con l’avvento di Berlusconi e dei governi delle destre le esclusioni dalla progressività sono aumentate di numero.
I governi di centrosinistra non hanno avuto la forza o la volontà politica di cambiare. E con il governo di Giorgia Meloni il predominio della flat tax è diventato ancora più esteso.
Per capire quanto sia sperequato questo sistema occorre ricordare che l’Irpef è oggi articolato su tre scaglioni e tre aliquote progressive: lo Stato si prende il 23 per cento del reddito fino a 28 mila euro di redditi lordi annui; il 35 per cento sulla parte di reddito annuo che va da 28 a 50 mila euro; il 43 per cento della parte di reddito che supera i 50 mila euro.
A questi prelievi si aggiungono, solo per i contribuenti Irpef, la sovrimposta Irpef regionale e la sovrimposta Irpef comunale. Per esempio, se guadagni 27 mila euro lordi l’anno lo Stato si piglia il 23 per cento; se ne guadagni 32 mila, lo Stato si prende il 23 per cento della somma fino a 28 mila euro e il 35 sulla parte restante. Più le sovrimposte regionale e comunale.
La trattenuta cresce più che proporzionalmente alla crescita del guadagno.
Ma quali contribuenti e quali fonti di reddito oggi sono sottoposti a questo tipo di tassazione? Solo i dipendenti, i pensionati, i lavoratori autonomi con fatturato superiore agli 85 mila euro l’anno (o che non hanno scelto il forfait al 15 per cento) e chi affitta i propri immobili ad uffici o a società.
Su tutto il resto tassa piatta, cioè un prelievo che non cresce al crescere del guadagno. Può essere noioso leggere l’elenco, ma è significativo e spiega molto della realtà italiana.
Tanto per fare qualche esempio, basti pensare che sull’ammontare dell’eredità i figli del defunto pagano il 4 per cento secco sulla parte di patrimonio che supera per ciascun erede il milione di euro di valore catastale. Quattro per cento sia che lo si debba pagare su mille euro sia che lo si debba pagare su un patrimonio di un miliardo di euro.
Progressività zero (se poi il patrimonio che passa di mano è sotto forma di quote di maggioranza di imprese, gli eredi diretti, cioè i figli del defunto, non pagano nulla, se si impegnano a governare l’impresa per almeno 5 anni).
Ancora: le nuove partite Iva dei giovani pagano il 5 per cento su una parte del fatturato; sull’ammontare degli affitti concordati si paga solo il 10 per cento dell’incasso, non importa se il contribuente affitti così una casa o gli appartamenti di dieci palazzi.
Sugli interessi di Bot, Cct e Btp si paga solo il 12 per cento, sia che tu abbia investito 5 mila euro di risparmi, sia che ne abbia investiti 500 mila.
Gli autonomi e le piccole imprese con partita Iva a forfait pagano solo il 15 per cento sul 75 per cento del fatturato fino ad 85 mila euro l’anno (uno dei primi provvedimenti del governo delle destre); sugli affitti non concordati si paga il 21 per cento; sui redditi di impresa si paga un secco 24 per cento (più il 4 per cento di Irap); sui capital gains si paga il 26 per cento secco (il 27 sugli interessi pagati dalle banche ai correntisti). Senza contare la carica delle flat tax contenuta anche nell’ultima manovra (5 per cento sugli straordinari degli infermieri e sulle mance nel turismo; 10, 12 e 15 per cento sui redditi di autonomi e piccole imprese che hanno accettato il concordato preventivo biennale; il 15 per cento sui redditi autonomi fino a 35 mila euro se prodotti da lavoratori che hanno già un reddito da dipendenti).
Non è un caso dunque se oltre l’85 per cento delle entrate Irpef viene da dipendenti e pensionati.
Ma poi entra in gioco anche il fiscal drag. Quando c’è una forte fase di inflazione e ci sono anche dei rinnovi contrattuali la struttura progressiva dell’Irpef produce un prelievo crescente (si ricordi l’esempio di prima da 27 a 32 mila euro) anche se il potere di acquisto degli euro che restano è minore. In presenza di rinnovi contrattuali, per esempio, crescono i redditi nominali, scavallano gli scaglioni Irpef, si pagano tasse crescenti, anche se quei redditi possono comperare meno beni di prima.
Domanda: quanto ha pesato questa tagliola su dipendenti e pensionati negli anni passati e quanto peserà ancora? Su www.lavoce.info un gruppo di economisti (Marco Leonardi, Luisa Loiacono, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi) ha fatto un primo calcolo: 14 miliardi di euro nel 2022, anno per il quale già sono disponibili le dichiarazioni fiscali suddivise per classi di reddito, di cui 9 a carico di dipendenti e 3,9 a carico dei pensionati; un ammontare che si è rinnovato di anno in anno fino ad oggi. Secondo gli stessi economisti oggi siamo tra i 16 e i 17 miliardi.
Conclusione di questo primo punto: la pressione fiscale è aumentata di più per i lavoratori dipendenti (e per i pensionati) nel loro complesso non solo perché è aumentata l’occupazione, ma anche perché è scattata la tagliola (a favore dello Stato) del fiscal drag.
Non a caso negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, con l’aumento velocissimo dei prezzi al consumo, era in vigore un meccanismo di attenuazione del fenomeno attraverso l’aumento automatico degli scaglioni (in base all’inflazione) sui quali calcolare il prelievo crescente del fisco.
Certo, il ragionamento non può fermarsi qui.
Il governo può vantarsi, giustamente, di aver stabilizzato per cinque anni il taglio del cuneo fiscale e di aver reso strutturale il taglio a tre delle aliquote Irpef. Anche in questo caso bisogna fermarsi un momento e capire bene come ci si è arrivati, quanto è costato e quali effetti produrranno effettivamente nel 2025 e negli anni a venire questi provvedimenti.
Tutto è cominciato con il governo Draghi, che tagliò temporaneamente il cuneo fiscale, cioè la parte di tasse e di contributi previdenziali che rendono ben differente il reddito lordo da quanto entra effettivamente in tasca ai dipendenti con la busta paga. Draghi lo fece per sostenere le famiglie in presenza della crisi provocata dall’epidemia di Covid.
Nel 2022, appena entrato al potere, il governo Meloni implementò il taglio dei contributi e lo rinnovò, rifinanziandolo anno per anno, fino ad oggi. Con l’ultima manovra di bilancio lo ha reso strutturale per cinque anni (poi andrà rinnovato e rifinanziato), ma ne ha cambiato la natura: fino ad ora il taglio riguardava i contributi previdenziali, con la manovra il taglio dei contributi previdenziali è stato sostituito con bonus fiscali e con detrazioni, cioè riducendo il prelievo delle imposte e allungando anche i benefici fino a 40 mila euro di reddito lordo annuo.
Quali saranno i “nuovi” effetti reali? I dipendenti avranno un “nuovo” beneficio?
La verità, secondo tutte le stime, è che i dipendenti con un reddito lordo fino a 35 mila euro di reddito probabilmente avranno poco o nulla in più, anzi secondo diverse simulazioni la cifra in fondo a destra della busta paga di molti di questi contribuenti nel 2025 sarà limata, sia pure di poco. Da 35 mila a 40 mila euro di reddito si avrà sicuramente qualche soldo in più.
Per ottenere questo risultato (e mantenere le tre aliquote Irpef) è vero che il governo ha messo in campo una notevole quantità di denari pubblici, più della metà dei circa 29 miliardi di euro di tutta manovra per il 2025.
Tantissimo. Ma, a ben vedere, è una somma che somiglia (anche se tecnicamente è sbagliato metterli in connessione) all’entrata fiscale aggiuntiva che gli esperti calcolano come frutto della tagliola del fiscal drag sugli stessi dipendenti e pensionati.
Fin qui la fotografia della manovra sul fisco e una prima risposta alla domanda sul fatto che il governo abbia o no tagliato le imposte: in concreto, cioè sulla base dei denari che rimangono effettivamente in tasca dopo le tasse, lo ha fatto molto per alcune categorie di contribuenti, molto meno per dipendenti e pensionati, nonostante l’effetto del cuneo fiscale, che pure è stato importante.
In concomitanza con i dati dell’Istat che segnalano un rallentamento della tradizionale tendenza ad accumulare risparmio degli italiani, le ultime rilevazioni campionarie della Coop sulla propensione al consumo degli italiani, condotte su un vasto campione di cittadini, indicano che il numero di coloro che prevedono di spendere di più in consumi superano gli altri del 6 per cento.
Ma in genere si prevede di spendere di più nel 2025 per i cosiddetti consumi obbligati, come le utenze domestiche, oltre che per la sanità e il cibo. In tutti gli altri settori la maggior parte degli intervistati ha manifestato intenzioni di acquisto in prevalenza negative, soprattutto per ristorazione, viaggi e intrattenimento extradomestico.
Mica è finita qui.
Il concordato preventivo, più volte rilanciato lo scorso anno e propagandato come lo strumento per finanziare un’ulteriore riduzione dell’aliquota Irpef intermedia dal 35 al 32 per cento, è stato un flop.
Più volte ho previsto e spiegato qui su Appunti le ragioni del fallimento di questa manovra, nonostante l’offerta sia stata straordinariamente al ribasso rispetto ai costi.
Basti qui ricordare, che puoi abbassare quanto vuoi il costo dell’accordo con il fisco, ma se il contribuente infedele ha buone ragioni per prevedere di non essere beccato in flagrante, o di dover davvero pagare pegno, allora calcola che un versamento di tasse pari a zero è sempre meglio di un piccolo versamento.
L’incasso complessivo previsto è stato pari a soli 1,6 miliardi, una somma non sufficiente a procedere ad ulteriori tagli di aliquote. Ma, appunto, non è finita.
Entro marzo, i contribuenti che hanno aderito al concordato potranno aderire anche al condono tombale che il governo ha aggiunto come una ciliegina sulla torta per convincere le partite Iva ad accettare di pagare un po’ di più di quanto dichiarato finora.
Come sempre accade con il governo Meloni, già cominciano a fare capolino sui quotidiani più vicini alle forze politiche della maggioranza previsioni strabilianti sui possibili incassi. E già si discute sul fatto che questi incassi possano supportare il taglio ulteriore delle aliquote Irpef (in particolare dell’aliquota intermedia dal 35 al 32 per cento).
Il punto delicato e da non dimenticare a questo proposito è che, seppure ci fosse un afflusso notevole per il condono (cosa tutt’altro che realistica), questi soldi rappresenterebbero solo una entrata una tantum, che quindi non potrebbe finanziare un taglio strutturale delle imposte.
Delle due l’una, quindi. O il governo rinuncerà al taglio dell’aliquota intermedia dell’Irpef, dichiarando così che con il metodo tanto pubblicizzato del fisco amico (cioè acquiescente fino al sacrificio con i contribuenti infedeli) non si può fare che cilecca; oppure il governo procederà ugualmente alla manovra promessa per far vedere ai propri supporter che è capace di fare ciò che dice.
In questo secondo caso, altri guai arriveranno a cascata per gli anni a venire: tagliare temporaneamente l’aliquota del 35 per cento, sempre che si possa fare (le regole europee sarebbero contrarie) significherebbe ritrovarsi l’anno venturo, per non dover tornare indietro, a rifinanziare la spesa. Come?
Con il taglio di altre spese o con l’aumento di altre entrate. L’ulteriore aumento della pressione fiscale sarebbe un colpo troppo duro per l’immagine del governo delle destre. Ma quali spese tagliare, allora?
Il governo ha già chiarito le proprie propensioni. Basti pensare al taglio del reddito di cittadinanza, al contenimento della spesa sanitaria, al taglio dei contributi per il Sud, dei trasferimenti ai comuni o del fondo per la crisi del settore automotive.
Se dunque il governo procedesse al taglio dell’aliquota Irpef intermedia solo sulla base di una entrata temporanea, senza aver indicato una fonte di finanziamento permanente per questa riduzione di entrate, gli italiani si potrebbero trovare di fronte al perseguimento di una politica simile a quella che l’amministrazione di Ronald Reagan nel 1980 definì Starve the beast, cioè affamare la bestia, cioè ridurre le tasse per fare in modo che lo Stato abbia meno risorse per finanziare la spesa per assistenza, sanità, scuola, ecc.
In altre parole: taglio le tasse oggi sulla base di un’entrata temporanea, prevedendo già di tagliare la spesa sociale in futuro con la giustificazione di dover mantenere la scelta fatta a favore dei contribuenti. Una scelta politica chiara, ma non detta agli elettori ed ai contribuenti in modo chiaro; una scelta solo implicita, ma molto, molto concreta.
Conclusione: la pressione fiscale assume un significato solo in relazione a tre punti di riferimento. Il primo: l’equità del prelievo delle tasse tra i cittadini. Il secondo: la quantità e la qualità dei servizi pubblici che il governo vuole garantire attraverso la spesa pubblica finanziata da quella tal pressione fiscale. Il terzo: come la quantità (e l’efficienza) del prelievo fiscale aiuti, sia neutrale o addirittura scoraggi l’attività economica.
Parlare di pressione fiscale, di positività o negatività di un taglio o di un aumento delle tasse, senza considerare la relazione con tutti e tre questi punti di riferimento, non ha senso: è tecnicamente e politicamente una fesseria. O un imbroglio.
Se vuoi sostenere Appunti, uno spazio di informazione e di analisi libero che si regge su lettrici e lettori, il modo migliore è regalare un abbonamento a qualcuno a cui tieni
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link