Il capitalismo etico di Sauro Pellerucci: innovazione e valorizzazione dell’economia locale

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Era il 1996 quando Sauro Pellerucci fondava la PagineSì! S.p.A., un’azienda nata con l’obiettivo di fornire servizi innovativi, ponendo al centro persone e territori. Allora, coniugare visione e radicamento territoriale per creare un modello aziendale sostenibile, era un atteggiamento pionieristico.

A differenza dei grandi colossi che mirano a dominare i principali mercati, PagineSì! S.p.A. ha  da subito intrapreso una strada alternativa, costruendo una rete che valorizzi le specificità locali, fornendo soluzioni di comunicazione che raggiungano i clienti ovunque si trovino, con un’attenzione particolare alle esigenze delle comunità locali. Un modello di business che non si è mai basato sulla conquista, ma su una “confederazione dei mercati periferici” che rispetta le peculiarità e le unisce in una rete armoniosa, sostenibile e profondamente radicata.

Questa strategia non solo ha portato l’azienda a raggiungere una dimensione nazionale, ma ha saputo creare un equilibrio tra crescita economica e rispetto delle peculiarità dei territori e delle persone che li abitano, incarnando una filosofia più ampia: lo sviluppo sano e naturale non è solo un obiettivo economico, ma una missione socio-culturale.

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Una visione ispirata al concetto di  “glocalizzazione”, in cui anche la dimensione capitalistica dell’economia assume una prospettiva del tutto inedita.

Negli ultimi trent’anni, le prime 10 aziende per capitalizzazione borsistica hanno visto crescere il loro peso sul valore complessivo delle borse mondiali, passando dal 2% al 13,5%. Cosa significa questa concentrazione per l’economia globale?

È un dato che dovrebbe far riflettere profondamente. Questo trend indica che la ricchezza e il potere economico si stanno concentrando in un numero sempre più ristretto di attori. Se da un lato queste aziende sono motori di innovazione, dall’altro rappresentano un rischio sistemico. La concentrazione non è solo economica, ma diventa politica e sociale e influenza decisioni che riguardano tutti. Quando dominano pochi colossi, il mercato perde diversità e le disuguaglianze aumentano. Questo non è sostenibile nel lungo termine, né per l’economia né per la stabilità politica.

 Quali sono le implicazioni per le piccole e medie imprese (PMI) e il commercio cittadino?

Le PMI e il commercio cittadino rappresentano sia la temperatura che il termometro di misurazione del benessere delle nostre economie. Esse producono reddito ma più ancora sono insostituibili nel loro ruolo di creare coesione sociale e vivibilità urbana e per questo occorre valutare il contesto sempre più ostile nel quale si trovano a competere. Quando il commercio locale soffre, anche la qualità della vita delle nostre città ne risente: meno attività, meno sicurezza, meno opportunità per tutti, meno bene comune.

Parlando di deindustrializzazione, come interpreta la trasformazione delle periferie industriali in centri commerciali o logistici?

È una delle conseguenze più evidenti della globalizzazione. Queste aree, un tempo produttive, oggi si limitano a consumare beni prodotti altrove, spesso in mercati con standard etici e ambientali molto inferiori ai nostri. È una transizione che impoverisce non solo il tessuto economico locale, ma anche quello culturale e sociale. La dipendenza dalle merci importate e il declino della produzione interna ci rendono vulnerabili, sia economicamente sia politicamente. Se l’Occidente non investe in una produzione etica e tecnologicamente avanzata, rischiamo di diventare meri consumatori, privi di controllo sul nostro destino.

Qual è il collegamento tra questi fenomeni: concentrazione borsistica, piattaforme digitali, calo del commercio cittadino e deindustrializzazione?

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Il collegamento è evidente: si tratta di un circolo vizioso. La concentrazione di capitalizzazione borsistica nelle mani di poche aziende, soprattutto tecnologiche, riflette il crescente dominio delle piattaforme digitali. Queste piattaforme hanno trasformato il modo in cui consumiamo, penalizzando il commercio cittadino e sottraendo risorse alle PMI. A loro volta, le città, prive di una produzione industriale e di un commercio locale solido, diventano meno attrattive e vivibili. Questo alimenta un ciclo di dipendenza economica e sociale che impoverisce tutti, ad eccezione di pochi colossi.

Come si può uscire da questo ciclo?

Non esistono soluzioni semplici o immediate, ma credo nella necessità di avviare una riflessione collettiva. Dobbiamo promuovere un modello economico che bilanci innovazione e inclusività, crescita e sostenibilità. Il commercio cittadino va supportato non solo per ragioni economiche, ma anche perché è un presidio di sicurezza e socialità. Le PMI vanno protette e incentivate a innovare. Dobbiamo tornare a produrre in modo etico, rispettando i lavoratori e l’ambiente. Questo non è solo un impegno per gli imprenditori ma per tutti, istituzioni, cittadini e consumatori, perché solo le comunità possono rappresentare gli interessi dei loro appartenenti.

Come potremmo far rinascere questo senso di comunità?

Intanto rispettandoci di più l’un l’altro e magari iniziando a stimarci di più vicendevolmente. Poi cercando di arricchire la visione di un’economia esclusivamente capitalistica con quella civile, che tanto avrebbe da insegnarci.

Lei ha espresso preoccupazioni per la crescente concentrazione economica e l’influenza delle grandi aziende sulle politiche globali: lei è contrario al capitalismo?

No, non lo sono. Credo anzi che il capitalismo, nel corso della storia, abbia avuto un ruolo straordinario nel creare opportunità e diffondere le libertà. Ha stimolato innovazione, migliorato le condizioni di vita e dato spazio all’intraprendenza individuale. Tuttavia, come ogni sistema, ha bisogno di essere bilanciato e regolato per non degenerare in forme assolutistiche.

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Il problema sorge quando il capitalismo si trasforma in un sistema in cui il profitto diventa l’unico metro di misura, spingendo le politiche nazionali a piegarsi agli interessi economici, piuttosto che servire il bene comune. Questo è un capitalismo squilibrato, che rischia di compromettere gli stessi valori democratici.

Io credo in un’economia che sia al servizio del benessere delle persone e non in un sistema dove le persone servano al benessere dell’economia. Abbiamo bisogno di un modello che generi ricchezza da distribuire e che sia sostenibile per le generazioni future. Il capitalismo, quando orientato da principi etici e sociali, è la migliore tra le forze propulsive perché di interesse per i singoli e per l’intera società. È compito di tutti – imprenditori, istituzioni e cittadini – assicurarsi che lo resti.





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