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Demotivati e frustrati, tra turni massacranti, escalation di casi di violenza, basse retribuzioni e limitate prospettive di carriera. Negli ultimi 11 anni il personale dipendente ha perso 28,1 miliardi. E crescono gli ostacoli per curarsi: dalle lunghe liste d’attesa al medico di famiglia che non si trova
Carenza di medici e infermieri, ma anche professionisti che progressivamente abbandonano il Servizio sanitario nazionale perché demotivati e frustrati, tra turni massacranti, escalation di casi di violenza fisica e verbale, basse retribuzioni e limitate prospettive di carriera. La crisi del personale sanitario, fulcro della sanità pubblica, si riflette inevitabilmente sui cittadini, dal medico di famiglia che non si trova, alle lunghe attese per fare visite, esami, interventi. E la situazione rischia di precipitare verso un punto di non ritorno se non s’interviene subito. È l’analisi fatta dalla Fondazione Gimbe e presentata nel corso dell’audizione in Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, nell’ambito dell’«Indagine conoscitiva in materia di riordino delle professioni sanitarie».
Personale dipendente
Per l’analisi sulle unità di personale dipendente Gimbe ha utilizzato sia i dati aggiornati al 2022 del «Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato», che include esclusivamente il personale dipendente delle Pubbliche Amministrazioni cui si applica il Contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto sanità, sia i dati del Rapporto del Ministero della Salute che, oltre al personale dipendente del Servizio sanitario nazionale, include i dipendenti delle strutture equiparate a quelle pubbliche e delle Università.
In particolare, per l’anno 2022, ultimo disponibile, il rapporto del ministero della Salute riporta un totale di 727.169 unità di personale: 625.282 dipendenti del Ssn (86%), 84.452 dipendenti delle strutture equiparate a quelle pubbliche (11,6%), 8.839 universitari (1,2%) e 8.596 con altro rapporto di lavoro (1,2%). Di queste unità, il 72% è rappresentato dal ruolo sanitario, il 17,6% dal ruolo tecnico, il 9,9% dal ruolo amministrativo, lo 0,2% dal ruolo professionale e lo 0,3% da qualifiche atipiche.
Medici
Nel 2022 i medici che lavoravano nelle strutture sanitarie erano 124.296: 101.827 come dipendenti del Servizio sanitario nazionale e 22.469 come dipendenti delle strutture equiparate al Ssn. La media nazionale è di 2,11 medici per 1.000 abitanti, con un rapporto che varia nelle diverse Regioni e va da 1,80 per mille abitanti in Campania a 2,64 medici per mille abitanti in Sardegna.
Secondo i dati dell’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel nostro Paese non mancano i medici: con 4,2 medici per mille abitanti, l’Italia si pone al di sopra della media degli altri Paesi Ocse (3,7 medici per 1.000 abitanti). È evidente, sottolinea Gimbe, il gap tra i medici attivi e quelli in quota al Servizio sanitario nazionale.
«Numerosi professionisti abbandonano il Ssn per lavorare nel privato o addirittura all’estero – commenta Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE –. A tutto ciò si aggiungono i pensionamenti previsti tra medici (ospedalieri e di famiglia), infermieri e altri professionisti sanitari, aggravati da burnout e demotivazione, che stanno riducendo sempre più la forza lavoro della sanità pubblica. Ciò ha inevitabilmente peggiorato la qualità e la sicurezza del lavoro per chi rimane, spesso costretto a turni massacranti in condizioni di carenza di organico. Inoltre, l’aumento dei casi di violenza fisica e verbale ai danni del personale sanitario, soprattutto nei Pronto Soccorso, ha ulteriormente compromesso la sicurezza e le condizioni di lavoro».
Carenze «selettive»
Continua Cartabellotta: «Oltre alla grave carenza di medici di famiglia soprattutto in Regioni del Nord ma che dal 2026 interesserà anche Regioni del Sud, si registrano carenze per alcune specialità di fondamentale importanza per il funzionamento del Servizio sanitario nazionale, che non sembrano essere più di interesse per i giovani medici: medicina d’emergenza-urgenza, medicina nucleare, medicina e cure palliative, patologia clinica e biochimica clinica, microbiologia, e radioterapia. Specialità per le quali la percentuale di assegnazione delle borse di studio, per l’ultimo anno accademico, è stata inferiore al 30%».
Infermieri
C’è poi la crisi del personale infermieristico. Nel 2022 erano 302.841 gli infermieri che lavoravano nelle strutture sanitarie: 268.013 come dipendenti del Servizio sanitario nazionale e 34.828 come dipendenti delle strutture equiparate al Ssn. La media nazionale è di 5,13 infermieri per 1.000 abitanti, con un rapporto che varia da 3,83 della Campania a 7,01 della Liguria. Le carenze maggiori si registrano nelle Regioni in piano di rientro.
Secondo i dati Ocse, con 6,5 infermieri ogni mille abitanti l’Italia si colloca notevolmente al di sotto della media dei Paesi Ocse (9,8 per 1.000 abitanti).
«Questa grave carenza – commenta Cartabellotta – stride col fabbisogno, stimato da Agenas (Agenzia nazionale per servizi sanitari regionali), di 20-25 mila infermieri di famiglia e di comunità necessari per la riorganizzazione dell’assistenza territoriale prevista dal PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza)».
Non solo il numero di infermieri è insufficiente ma anche le iscrizioni al Corso di Laurea sono in continuo calo. Nel 2022 il numero di laureati in Scienze Infermieristiche è stato di 16,4 per 100.000 abitanti, un dato molto inferiore alla media Ocse di 44,9.
Il calo della spesa per il personale dipendente
Per l’analisi della spesa per il personale dipendente, Gimbe ha utilizzato i dati del recente Rapporto «Il monitoraggio della spesa sanitaria» della Ragioneria Generale dello Stato, relativi all’anno 2023.
Fa notare il presidente GIMBE: «Nel periodo 2012-2023 il capitolo di spesa sanitaria relativo ai redditi da lavoro dipendente è stato quello maggiormente sacrificato». In termini assoluti, dopo una progressiva contrazione da 36,4 miliardi nel 2012 a 34,7 miliardi nel 2017, la spesa ha iniziato a risalire raggiungendo 40,8 miliardi nel 2022, per poi scendere a 40,1 miliardi nel 2023. Tuttavia, rileva l’analisi, in termini percentuali, se nel 2012 la spesa per il personale sanitario dipendente era pari al 33,5% della spesa sanitaria totale, si è ridotta man mano negli anni fino ad arrivare al 30,6% nel 2023. Commenta Cartabellotta: «Se la spesa per il personale dipendente si fosse mantenuta ai livelli del 2012, quando rappresentava circa un terzo della spesa sanitaria totale, negli ultimi undici anni il personale dipendente non avrebbe perso 28,1 miliardi, di cui 15,5 miliardi solo tra il 2020 e il 2023, un dato che evidenzia il sacrificio economico imposto ai professionisti del SSN».
Livelli essenziali di assistenza
Analizzando qual è la quota del fabbisogno sanitario nazionale ripartita tra le Regioni che viene destinata al personale, Gimbe ha rilevato che la spesa per unità di personale a livello nazionale è pari a 57.140 euro, però in tutte le Regioni in Piano di rientro si registrano paradossalmente valori superiori alla media nazionale. «L’ottimizzazione della spesa pubblica per il personale sanitario è stata gestita in maniera molto differente tra le Regioni – spiega Cartabellotta – . Non a caso, quelle più virtuose nel garantire i Livelli essenziali di assistenza (Lea) registrano una spesa per unità di personale dipendente più bassa. Un risultato verosimilmente dovuto sia alla riduzione delle posizioni apicali (direttori di Unità semplici, complesse ecc), sia a un più elevato rapporto professioni sanitarie/medici, che consente di ridurre la spesa mantenendo una maggiore forza lavoro per garantire l’assistenza sanitaria».
Ricorso ai «gettonisti»
Negli anni, dice Cartabellotta, «la carenza di personale sanitario, unita all’impossibilità per le Regioni di aumentare la spesa per il personale dipendente a causa dei tetti di spesa, ha alimentato il fenomeno dei “gettonisti”: medici, infermieri e altri professionisti sanitari reclutati tramite agenzie di somministrazione del lavoro e cooperative, con i relativi costi rendicontati come spese per beni e servizi». Nel solo periodo gennaio-agosto 2023, la spesa è stata di 476,4 milioni, un valore doppio rispetto all’anno precedente.
Rilanciare il «capitale umano»
«Il Servizio Sanitario Nazionale sta affrontando una crisi del personale sanitario senza precedenti, causata da errori di programmazione, dal definanziamento e dalle recenti dinamiche che hanno alimentato demotivazione e disaffezione dei professionisti verso il Ssn; e non è solo una questione economica ma una priorità cruciale per la sostenibilità del Ssn. Liste di attesa interminabili, Pronto Soccorso affollati, impossibilità di trovare un medico di famiglia hanno un comune denominatore: la carenza di professionisti sanitari, la loro disaffezione e il progressivo abbandono del Ssn – ribadisce il presidente della Fondazione GIMBE –. È urgente rilanciare le politiche sul capitale umano per valorizzare la colonna portante della sanità pubblica, rendendo nuovamente attrattiva la carriera nel Ssn e innovando i processi di formazione e valutazione delle competenze professionali. Senza questi interventi, il Servizio sanitario nazionale non sarà in grado di garantire universalmente il diritto alla tutela della salute, rendendo vano qualsiasi tentativo di arginare questa crisi» conclude Cartabellotta.
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