Opinioni | La difficile difesa europea

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Non sappiamo se nell’incontro di Mar-a-Lago Donald Trump e Giorgia Meloni abbiano parlato di Nato. È certo però che, dopo il suo insediamento, il nuovo presidente tornerà sulla questione delle spese militari europee, rinnovando la richiesta di un loro massiccio incremento. Per i leader Ue si tratta di una vera e propria patata bollente. Dove trovare i soldi? E come convincere l’opinione pubblica? Il tema della difesa (armi, soldati, guerra) scopre i nervi di quella «democrazia del benessere» che caratterizza il modello europeo, frutto di quasi ottant’anni di pace interna e prosperità. In questo tipo di democrazia, la sicurezza sociale dei cittadini (la salvaguardia del loro tenore di vita) è diventata il cuore della «ragion di Stato». Spiazzando l’obiettivo storicamente prioritario per l’azione dei governi, ossia la sicurezza esterna (la protezione contro le minacce di forze ostili). Dagli anni Cinquanta ad oggi, il rapporto fra spesa per il welfare e quella per la difesa è aumentato in media di circa venti volte. Fra in grandi Paesi Ue, solo Germania, Francia e Polonia spendono oggi almeno il 2% del Pil, l’Italia è all’ 1,5%, la Spagna all’1,3%. Il grosso della spesa è assorbito dalle prestazioni sociali (intorno al 25%). Uno straordinario segnale di civiltà e progresso, senza dubbio. Che è stato possibile solo perché gli Usa si sono fatti carico della nostra protezione. La guerra in Ucraina e l’aggressività di Putin hanno messo a nudo la potenziale vulnerabilità di questo modello a fronte di minacce esterne e di un eventuale disimpegno americano.

Se vogliamo conservare il benessere, dobbiamo rassegnarci a proteggerlo in prima persona, investendo di più nella difesa.
L’operazione è politicamente delicata per due ragioni. Dati i vincoli di bilancio, spendere di più per la difesa implica maggiori tasse oppure tagli alle prestazioni, provvedimenti molto impopolari. Inoltre, la cosiddetta cultura strategica europea, cioè le norme e le credenze che riguardano l’uso della forza, è pervasa di sentimenti pacifisti (compreso quello che Norberto Bobbio chiamava il pacifismo dei paternoster), nonché di storici pregiudizi anti-atlantisti (a sinistra) e di simpatie filo-russe (soprattutto a destra). In altre parole, c’è una opposizione di principio alle spese militari e c’è disaccordo circa la fonte delle minacce.




















































Si tratta di orientamenti che affondano le proprie radici negli albori della Guerra Fredda. Nel lontano 1954, furono la sinistra francese e la destra gollista a bocciare l’idea di una Comunità europea della Difesa. Oggi Mélenchon vorrebbe uscire dalla Nato «imperialista», mentre Le Pen è filo-russa. I sondaggi segnalano che in tutta Europa (Italia compresa) la fiducia nei confronti di Putin e corrispettivamente la sfiducia in Zelensky sono significativamente più alte fra gli elettori dei partiti di destra. I simpatizzanti raggiungono la percentuale record del 45% nel caso di Alternative für Deutschland (Afd): una cifra sorprendente, che getta molte ombre sulla futura politica estera tedesca dopo le elezioni di fine febbraio.

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I governi favorevoli al rafforzamento della difesa dovranno barcamenarsi fra l’incudine dei costi e il martello delle resistenze di molti elettori. Fra i leader europei, Giorgia Meloni è oggi l’unica che può vantare un solido sostegno politico interno, una buona reputazione internazionale e ottime credenziali atlantiste. Vorrà e saprà prendere una iniziativa concreta?
Gli ostacoli sono tanti. La democrazia del benessere «all’italiana» ha generato un enorme buco nelle finanze pubbliche, per investire in difesa avremmo bisogno di risorse Ue e ciò genera nei nostri partner sospetti di opportunismo. Inoltre, la cultura strategica degli italiani si sta ripolarizzando. L’antipatia verso la Nato è cresciuta dal 16% al 36% nell’ultimo quindicennio, mentre l’invasione della Ucraina ha fatto aumentare, fra gli elettori di destra, il sostegno alla Russia di Putin.

Nel loro programma elettorale 2024, i Conservatori e Riformisti Europei hanno ribadito la convinzione che difesa ed esercito debbano restare prerogative nazionali e che non sia necessario creare una difesa comune a livello Ue. La premier italiana sembra aver cambiato opinione, ma sarebbe auspicabile maggiore chiarezza.
Il vuoto di leadership franco-tedesca e il peso crescente, in questi due Paesi, delle destre filo-putiniane rischiano di paralizzare gli schemi di cooperazione già esistenti o programmati da Bruxelles, inclusa l’emissione di eurobond per la difesa. Il minimo che Giorgia Meloni può oggi fare è contrastare i rischi di stallo e di ri-nazionalizzazione delle politiche di sicurezza. Spiegando bene a Trump che la difesa comune, e non il semplice aumento delle spese di ciascun Paese membro della Nato, è la strada che la Ue intende seguire per difendere se stessa e conservare così il proprio modello sociale.

11 gennaio 2025



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