Uccisi dai clan e dimenticati, l’archivio dei 200 casi irrisolti

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Procedura celere

 


In un’Italia lontana c’è un gigantesco archivio vuoto, pieno di schedari vuoti e di fascicoli vuoti. Solo qualche vecchia carta ricoperta dalla polvere, tanti nomi, tanti numeri, una data antica, una perizia balistica, il resoconto di un medico legale È l’archivio dei morti che non ci sono, un archivio che è a Gioia Tauro, a Locri, a Siderno, a Crotone, un archivio che è a San Luca, a Lamezia, a Limbadi, a Vibo, a Varapodio, a Villa San Giovanni. È un archivio che è dappertutto nella Calabria degli omicidi impuniti.
Quanti sono? Quanti ne hanno uccisi negli ultimi quaranta o cinquant’anni nella punta più a sud dell’Italia? Quanti uomini e quante donne e quanti ragazzi, e anche bambini, sono finiti in una lista nera che non ha mai contato neanche per le statistiche, vittime innocenti dimenticate sulla terra e nella terra, vittime che valgono tre colonne in cronaca per un solo giorno?

Raccontano alcuni che siano più di cinquecento, altri dicono che siano quasi mille, sono voci che s’inseguono intrecciandosi lungo fili invisibili, non c’è niente di certificato, non ci sono più inchieste e nella stragrande maggioranza dei casi non ci sono mai stati processi.
Archivi vuoti, fascicoli vuoti.

Sono vittime che non sembrano neanche vittime perché non sono e non sono mai state. Non esistono. Eppure vagano come fantasmi dallo Stretto all’Aspromonte, dalle Serre sino alla Sila.
Da molti anni amici calabresi mi parlano di queste loro ombre senza però riuscire mai a dare una forma o una trama a un dramma che è rimasto sempre sospeso, impreciso, rarefatto.

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Procedura celere

 

Poi, un mese fa, sono sceso a Cosenza e ho ascoltato le testimonianze di due donne e ho scoperto che una memoria ricostruita c’è. C’è anche se è, per così dire privata, fatta in casa, il più delle volte da sempre ignorata dallo Stato italiano. Un resoconto che è impasto di sentimenti, dolore, rabbia, paura, speranza. È come uno strappo nella carne, una ferita che non si rimargina mai.

Senza verità

Quanti sono allora? Cinquecento? Mille? I rapporti polizieschi non ce lo dicono e le procure antimafia nemmeno.

Un primo numero (certo) anche se decisamente incompleto adesso però ce l’abbiamo, è attendibile perché proviene dalla fonte primaria, dalla sofferenza dei familiari di chi non c’è più. Su 202 vittime, cadute dal principio degli anni Settanta e messe una dopo l’altra in elenco, sono 196 quelle che, per usare una brutta espressione, sono morte per niente. Delitti “ad opera di ignoti”. Praticamente quasi tutti. Come se nessuno abbia voluto mai sapere il perché della loro sorte. Come se non ci fossero mai state indagini, o come se le avessero liquidate in poche ore o in pochi giorni. Sempre senza volto i sicari, senza volto i mandanti, sempre oscuro il movente.
Non l’hanno trovato il movente, avrei preferito scrivere. In realtà credo che, per moltissime vittime, non l’abbiano mai cercato veramente. Hanno sepolto i cadaveri in fretta per sotterrare anche il loro ricordo.
La memoria perduta della Calabria si ritrova negli scritti di Luciana De Luca, una giornalista del Quotidiano del Sud che dal 2016 ha raccolto quelle 202 vite dei fantasmi calabresi in un quaderno che è non è semplice indizio ma prova con riscontro. Un pezzo la settimana che è anche un pezzo di cuore che ogni volta batte sempre più forte, vite tutte uguali e tutte diverse finite in quel gigantesco archivio vuoto.

Luciana De Luca ha cominciato a guardare in faccia i figli e le sorelle e i fratelli delle vittime che non ci sono più ricordando, per volere della famiglia, il padre del suo editore, Mario Dodaro, ucciso la sera de 18 dicembre del 1982 sotto la sua casa a Castrolibero. Estorsione, il pizzo non pagato. Ma per tanto tempo l’omicidio di Dodaro è rimasto nel buio, forse mafia e forse no, fino a quando – siamo già dopo il 2015 – i magistrati decidono che “è mafia” ma i presunti killer rimangono comunque presunti. Soltanto uno degli imputati condannati per 416 bis. Una giustizia a metà che però, visto come sono andate le cose, è già tanto per quella Calabria.
E poi naturalmente sono arrivate tutte le altre vittime fino a quando «i loro morti, ora, sono anche i mie morti», dice.

Probabilmente neanche Luciana, ancora oggi, sa sino in fondo se sia stata lei ad andare incontro a loro o, al contrario, se siano stati loro ad avvicinarsi a lei attraverso i suoi articoli. Ma poco importa perché Luciana poi ha continuato a scavare nei labirinti della Calabria e in quei labirinti della giustizia negata. Ha fatto e fa ancora quello che lo stato non riesce a fare laggiù: cercare frammenti di verità.
Un raccolta che è diventata un primo libro Diario della memoria, imprenditori contro la ’ndrangheta, pagine che sono “una discesa negli inferi” cominciata nel 1972.

Rimozioni

A Cosenza, Luciana ha intervistato pubblicamente quelle due donne con i cari portati via dalle lupare e dai misteri.
Si chiamano Giuseppina Germanò e Teresa Galluccio, alla prima hanno ammazzato il padre e alla seconda il marito.
Michele Germanò era un imprenditore agricolo di trentasei anni di Cittanova, l’hanno abbattuto con un fucile a canne mozze in un giorno di primavera del 1977, il 27 maggio. Aveva appena raccolto i pomodori nella sua campagna. Non aveva mai subito attentati, nessuno l’aveva mai minacciato. Sua figlia Giuseppina, quasi mezzo secolo dopo, non conosce la ragione per la quale suo padre è morto. Un caso chiuso, finito in quell’archivio calabrese come “delitto inspiegabile”.
Giuseppe Giovinazzo era un muratore di ventisei anni, anche lui di Cittanova. Assassinato nell’autunno del 1980, il 10 ottobre. Sua moglie Teresa aveva quindici anni quando l’ha sposato e venti quando è rimasta vedova («Sono forse la vedova più giovane d’Italia») e senza un soldo, prima e dopo: «Io tutte le sere lavavo sia la biancheria intima che i vestiti che avevamo addosso, così avremmo potuto rimetterli puliti la mattina dopo. In quel periodo non potevamo comprarci altri vestiti. La carne la mangiavamo solo a Natale e a Pasqua, quando ci invitava la nonna».

Abbandonati

Un altro caso chiuso, un altro “delitto inspiegabile” della Calabria di ieri che poi non sembra tanto diversa da quella di oggi. Testimoni inconsapevoli, il momento sbagliato e il luogo sbagliato, una parola di troppo ascoltata o riferita, uno scambio di persona Altri due sepolti per sempre.
Ne ha ancora tante storie da scrivere Luciana sulla sua Calabria. Le prime, proprio le prime, sono arrivate da Libera, l’organizzazione di don Luigi Ciotti. Poi quelle altre da Piana Libera, una piccola associazione appunto della Piana di Gioia Tauro, dove si sono ritrovati un centinaio di familiari delle vittime che non hanno mai avuto accanto lo Stato, un conforto, neanche un piccolo sostegno economico. E infine le storie che sono arrivate una dopo l’altra “naturalmente”, articolo dopo articolo, testimonianza dopo testimonianza, attratta una dall’altra e incastrata una con l’altra. Con i parenti delle vittime che, nonostante tutto, finalmente capiscono che si può vincere la solitudine. Racconta De Luca: «È una realtà spaventosa perché c’è morte ma è anche una realtà di resistenza straordinaria, del dolore che si trasforma in impegno, a me questo diario ha insegnato a stare al mondo».
Così sta affiorando una sorta di mappa dei morti che non esistono, dei morti per sempre che non hanno mai avuto un posto nei registri pubblici, un riconoscimento nelle commemorazioni ufficiali.

La mappa di una Calabria sconosciuta che fa ancora molta paura.

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