«La vicenda Craxi va collocata nella storia d’Italia, e non solo, e va analizzata, con le sue luci e le inevitabili ombre, con le categorie proprie dell’analisi storica». A 25 anni dalla morte del leader socialista, Gianvito Mastroleo, presidente emerito della Fondazione Di Vagno, un passato con incarichi istituzionali ricoperti da esponente del Psi, mette a fuoco un passaggio decisivo.
Mastroleo paventava un rischio. Quale?
«Quello di sciupare un’occasione storica. Avviare un’analisi storiografica seria e rigorosa, più che solo memorialistica, intorno alla sua figura. Non può essere accettabile il tentativo deformante, all’interno dello scenario politico contemporaneo, di collocare la figura di Craxi in un posto del tutto sbagliato: la destra, soprattutto quella contemporanea, nella quale sarebbe lui per primo a sentirsi a disagio».
L’ombra della vicenda giudiziaria è ancora lunga…
«Ma nessuno può dimenticare il trattamento “particolare”, se non esclusivo, riservato dai giudici a Craxi e ai socialisti tra il 1992 e 94 con le più che giustificate reazioni; tanto meno si può sottovalutare l’”accanimento giustizialista” riservatogli e il quinquennio del suo esilio ad Hammamet, lontano da quello che gli amava più nella sua vita: il suo paese, il suo partito, la lotta per il Socialismo. Un insieme ormai metabolizzato dal sentire più comune ma che non interessa per il futuro sopratutto con le reazioni spesso solo rancorose. Materia per la dialettica politicista per il presente, anche se abusata o ancor più frequentemente strumentalizzata: ma per la quale è ingeneroso evocare figure che in vita hanno molto sofferto e le cui ferite tuttora sanguinano nelle famiglie. Tutto questo andrebbe collocato nella cassetta dei ricordi e mai usato per la politica di oggi: chiunque lo faccia».
Lei dice: Craxi va studiato.
«Usando le categorie della storia. Ci sono una serie di buoni motivi. Craxi è stato leader democratico ed antifascista: Craxi è stato il socialista politico più vicino e più a lungo a Pietro Nenni e nessuno può sospettare che non abbia assorbito fin nel midollo l’avversione al fascismo che fu di Nenni; ma mette conto a tal fine ricordare la visita di Bettino Craxi, negli anni del suo volontario esilio ad Hamamet negli anni ‘70, in Cile quando, sfidando a viso aperto la reazione di Pinochet e della sua polizia, volle recarsi, anche a forte rischio personale, sulla tomba di Salvador Allende assassinato dal fascismo cileno. Di Craxi va studiato il deciso contributo alla modernizzazione culturale della società oltre che del partito socialista italiano, ed europeo più in generale, rispetto alle esigenze mutate della contemporaneità; e va compreso fino in fondo il suo “riformismo”, che non era moderazione, e che oggi per alcuni profili si rivela non attuabile. E poi Il rapporto con il Pci, da Berlinguer a Occhetto, e la vicenda Moro, molto complessa, che vanno studiate fuori dai condizionamenti dall’appartenenza; Il Congresso di Bari del ‘91 che di là dalla canottiera intrisa di sudore, assieme alla questione morale e il finanziamento della politica vanno letti nei loro riflessi sul (mal) funzionamento della politica di oggi. Anche il decisionista Craxi, che aveva a cuore il principio della “governabilità” (che non va confuso con la reinterpretazione in “governismo”), pensava ad una riforma costituzionale: ma lui la sottopose all’esame di noti studiosi prima di formalizzarla, cosa che non fece, e viene citata a sproposito rispetto alle proposte oggi in campo. Craxi va studiato, studiato più che raccontato attraverso un’aneddotica gossipara, nel suo ruolo di capo del Governo e di Segretario di uno dei partiti più importanti della coalizione di centro sinistra assieme al contributo peculiare dei socialisti a quella politica».
C’è una ricerca storica ancora acerba?
«Poco conosciuta. Penso alla Fondazione Socialismo, guidata da Gennaro Acquaviva: ha avviato l’analisi storica, con un’attenzione non secondaria alla politica estera, ed ha pubblicato ben dieci volumi, oggettivamente poco conosciuti: analisi che andrebbero riprese e maggiormente divulgate, per esempio, di fronte alla gravissima crisi medio-orientale che Craxi conosceva assai bene, e non solo per il suo rapporto preferenziale con Arafat, e che sarebbero utili ancora oggi per chiunque esponente di governo che volesse accostarsi a quelle delicatissime questioni: e se e fino a qual punto della medesima fu vittima. Non sarebbe il caso di riprendere quelle analisi, parlarne, confrontarsi e attualizzarle, sottoporle al rigore analitico degli studiosi di storia e convocare questi, gli studiosi, nel dovuto contraddittorio? Si sta scrivendo abbastanza in queste settimane e leggeremo tutto. Ma, di la’ dal rispetto dovuto alle singole persone, fa specie vedere affidato Bettino Craxi a Maurizio Gasparri, a Ignazio Larussa e a tutto il derivato del neo fascismo italiano. Ne va di mezzo almeno il senso dell’opportunità: forse lo stesso rispetto che a Craxi è dovuto».
Quella santa inquisizione chiamata «Pool Mani Pulite» di Biagio Marzo
Il tempo è galantuomo. Il revival del pensiero politico, di statista e umano di Bettino Craxi conferma il voltaireiano aforisma. Si parla e si scrive su di lui a bizzeffe. Nessun leader della Prima repubblica è dibattuto quanto lui. Per lungo tempo, la damnatio memoriae l’ha perseguitato in modo violento, ora, c’è un ripensamento a tutto tondo, anche perché alcune sue battaglie sulla giustizia, come la separazione delle carriere dei magistrati la sta portando in porto il governo Meloni. A dimostrazione della giustezza della riforma sta nel fatto che tutte le inchieste del pool Mani pulite si poggiavano sullo stretto rapporto tra i pm e il gip. L’espediente inventato dai Procuratori era di consegnare sempre a un unico gip, Italo Ghitti, tutte le richieste di misure cautelari. Un «trucco» rivelato dal quel galantuomo giudice, Guido Salvini, che confessò che venne creato ad hoc un «registro», utilizzato, impropriamente, come «fascicolo» comprensivo per tutti i filoni d’inchiesta e dotato di «un numero con cui iscriveva qualsiasi novità riguardasse le tangenti», vere o costruite sulla base di ciò che il procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, definiva lo «choc carcerario».
A Craxi, la stragrande maggioranza degli avvisi di garanzia è stata recapitata in base all’antica massima giuridica del «brocardo»: « Non poteva non sapere». I conseguenti processi avvenivano, senza che i testimoni a suo favore venissero interrogati e non ci fu alcun accusatore che l’accusasse. Chiaramente, processi farsa. I Tribunali e poi le Corti d’appello emettevano le sentenze di condanna, bell’e pronte. Insomma, le prove di colpevolezza venivano costruite nella logica dell’escalation: dal finanziamento dei partiti si saliva alla corruzione e più in su alla concussione, per arrivare alla ricettazione alla bancarotta fraudolenta. Sempre unitamente per concorso morale. Si chiama giustizia politica, senza alcun dubbio. Non nuova, vecchia quanto il cucco.
Nel cattolicesimo fece scuola l’Inquisizione creata, nel 1542, il cui capo supremo fu il domenicano spagnolo Torquemada; nella Russia comunista – Urss – ci furono le «Grandi purghe» – dal 1936 al 1938 – , una spietata repressione voluta da Stalin, usando come braccio esecutivo il procuratore Vysinskij. I processi erano fatti per «epurare» il Pcus da presunti cospiratori. Sembra strano, ma non lo è, nei democratici Stati Uniti d’America, all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, si scatenò il maccartismo – dal nome del senatore Joseph McCarthy -, una esasperata repressione nei confronti di uomini dello spettacolo e della cultura e del mondo politico del partito Democratico accusati di filo comunismo. Mani pulite si ascrive, fatte le dovute correzioni, in una giustizia che va oltre lo Stato etico e ancora più la’ dello Stato di diritto. Alla redde rationem, e’ una giustizia ideologica e politica, che contiene nel suo apparato genetico gli elementi che consentono la «ripetibilità strutturale», per dirla con Koselleck, dei modelli inquisitori di cui sopra. Bettino Craxi fu la «strega» da cacciare, o il Giordano Bruno da bruciare o il Bucharin da fucilare o il Charlie Chaplin comunista da perseguire.
Craxi fu accerchiato dal circo mediatico – giudiziario, perché era un «irregolare» rispetto all’establishment, al deep state e al regime consociativo, messo in campo in Parlamento dalla Dc e dal Pci, di cui si sentiva stretto. A ben pensarci, avrebbe voluto rompere l’asse dei due principali partiti dello schieramento politico, con la Grande riforma istituzionale e costituzionale, la cui intuizione era giusta, ma resto’ sulla carta, non avendo la forza dei numeri, per imporla e portarla in porto. Elettoralmente debole, politicamente forte, finquando ci fu Yalta. Dopodiché, arrivò il tana libera tutti, con il crollo del comunismo e le carte politiche e ideologiche si mischiarono. Comunque sia, si modificò il paradigma geopolitico e l’amministrazione George Bush cambiò spalla suo fucile e mutò atteggiamento verso alcuni alleati europei della Guerra fredda, in Italia in primis. In verità, non solamente per l’Italia, cambio’ lo scacchiere internazionale. Alla luce della nuova realtà internazionale, Craxi aprì al Pci – Pds, stando al governo con la Dc, ma così non fece la differenza. Credeva che con il primato della politica, potesse ancora avere il jolly in mano, ma la situazione era cambiata e la crisi politica, mise in campo quello che, in tempi non sospetti, Curzio Malaparte, con una visione inedita, ricostruisce la tecnica del rovesciamento dei regimi in «Tecnica del colpo di Stato». La magistratura inquirente e giudicante trovò al suo interno la sintesi e la simmetria e fu perfetta, per «rivoltare l’Italia come il calzino», ma non ebbe la forza e le idee per andare al governo. Francesco Saverio Borrelli tentò, ma fu stoppato da Scalfaro, invece, Antonio Di Pietro scelse di fare politica, ma fu un insuccesso tout court. Quelli del pool Mani pulite seguirono percorsi politici e professionali diversi.
Bettino Craxi il capro espiatorio del crollo della Prima repubblica pagò, perché non volle seguire quello che gli suggeriva Enrico Cuccia di essere il «taxi driver» di una Seconda repubblica senza i partiti e la politica. Lui che era figlio del partito e aveva mangiato pane e politica per tutta la vita, rifiutò e pagò di persona.
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