Omicidio di Barisciano, pubblicate le motivazioni della Cassazione che ha confermato la condanna a 15 anni per Gianmarco Paolucci, ritenuto colpevole dell’omicidio di Paolo D’Amico: movente “mai accertato”, ma decisiva la traccia di DNA e i riscontri investigativi.
Sono state pubblicate le motivazioni per le quali la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 15 anni di reclusione per Gianmarco Paolucci per l’omicidio di Paolo D’Amico, avvenuto il 22 novembre 2019 a Barisciano, così come la Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila aveva precedentemente confermato la sentenza di primo grado del 2 novembre 2022. Come rileva la Suprema Corte, la responsabilità di Gianmarco Paolucci è stata stabilita sulla base di prove scientifiche, testimonianze e indagini della polizia: tracce del DNA di Paolucci sono state trovate sui pantaloni della vittima e la sua presenza vicino al luogo del delitto al momento dell’omicidio è stata confermata dai tabulati telefonici. A incidere anche l’opposizione di Gianmarco Paolucci al prelievo di un campione del suo DNA. Il tutto, pur in assenza di movente che la stessa Corte definisce “mai accertato”.
Come ricordano i giudici della Cassazione, “secondo i giudici di merito l’omicidio di Paolo D’Amico è stato commesso da una sola persona che lo ha aggredito, all’interno del suo laboratorio, con numerosi colpi inferti con uno strumento tagliente e un martello, rinvenuti sulla scena del crimine, e poi spostato, trascinandolo al suolo per le gambe, all’interno del suddetto laboratorio così da ostacolarne il rinvenimento, che difatti avveniva nei giorni successivi. All’individuazione dell’imputato si è giunti attraverso la comparazione, cui si era opposto il ricorrente, del suo profilo genetico con le tracce lasciate sui pantaloni della vittima, nonché sulla base della presenza dell’imputato in prossimità del luogo dell’omicidio a fronte della allegazione di un alibi risultato falso“.
Da parte sua, la difesa rappresentata dall’avvocato Licia Sardo ha chiesto l’annullamento della sentenza: “Il difensore osserva che non è stato accertato il momento nel quale il DNA dell’imputato si è trasferito sui pantaloni della vittima, sicché l’elemento probatorio non è univoco, mentre i giudici di merito fanno unicamente leva, per fondare la responsabilità, sul rifiuto opposto dall’imputato al prelievo di un campione del proprio materiale genetico. Tale rifiuto, del resto, è stato superficialmente opposto dall’imputato in considerazione del consiglio legale offertogli da un difensore, sicché non può essere valorizzato a suo carico. D’altra parte, i giudici di merito hanno illegittimamente utilizzato le dichiarazioni rese da Gianmarco Paolucci alla polizia giudiziaria, che lo esaminava quale persona informata sui fatti, circa il rinvenimento del suo DNA sui pantaloni della vittima: le dichiarazioni non potevano essere utilizzate, come anche i giudici di merito riconoscono, perché indizianti. I giudici di merito hanno erroneamente e immotivatamente giudicato non plausibili e non dimostrate le giustificazioni offerte dall’imputato che aveva riferito di essersi in precedenza recato nell’abitazione della vittima, notando alcuni indumenti sul tavolo. La sentenza è, poi, immotivata per quello che riguarda la ricostruzione del movente, individuato in un traffico di stupefacenti, senza che emerga alcun concreto elemento per addebitare a Gianmarco Paolucci tale condotta. […] Quanto alla datazione dell’omicidio, la Corte, in modo incomprensibile e processualmente inaccettabile, utilizza l’orario nel quale il telefono dell’imputato è stato tracciato in una località non lontana dall’abitazione della vittima, mentre avrebbe dovuto procedere alla datazione della morte sulla base di elementi oggettivi che riguardano la scena del crimine e non gli spostamenti dell’imputato: in sostanza, secondo i giudici di merito, la datazione effettuata dall’accertamento autoptico è esatta solo perché il telefono dell’imputato si trovava nella zona dell’omicidio. Anche la questione del mancinismo è utilizzata a carico dell’imputato mentre, invece, essa costituisce un elemento a suo favore tenuto conto che secondo i consulenti tecnici l’aggressore era destrimane mentre l’imputato è mancino. I giudici di merito, sovvertendo completamente la logica, arrivano ad affermare che l’imputato, trovandosi in una situazione di pericolo, avrebbe utilizzato la mano destra perché abituato a utilizzare indifferentemente entrambi gli arti superiori”.
Quindi la decisione della Corte: “Il ricorso, che presenta numerose doglianze inammissibili, è nel complesso infondato“. Queste le motivazioni: “Le censure che riguardano la ricostruzione in fatto compiuta dai giudici di merito sono inammissibili. È doveroso premettere che i giudici di merito hanno valorizzato i seguenti elementi: – la morte di D’Amico risale, secondo la non contestata ricostruzione scientifica effettuata dai consulenti medico-legali, tra la notte del 21 e la tarda sera del 23 novembre 2019; – ulteriori elementi di fatto, che il ricorso non contesta, hanno portato a restringere l’ambito temporale della morte al pomeriggio del 22 novembre 2019; in particolare, D’Amico è stato visto in vita alle ore 9:45 del 22 novembre 2019 e ha navigato su internet con il proprio computer portatile dalla propria abitazione fino alle ore 11:04 del 22 novembre 2019; più precisamente, l’ambito temporale dell’omicidio è stato ulteriormente ristretto al pomeriggio del 22 novembre perché, secondo quanto risulta dai tabulati telefonici della vittima, egli ha effettuato una chiamata in uscita alle ore 15:06, mentre alle successive ore 19:21 è stata registrata una chiamata in entrata con messaggio di scollegamento dell’utenza; – l’omicidio è stato compiuto, secondo la non contestata ricostruzione dei consulenti e dei tecnici del RIS, da una sola persona che ha colto D’Amico quasi sulla soglia della porta di accesso al magazzino pertinenziale della sua abitazione; – immediatamente dopo la morte, l’aggressore ha trascinato per i piedi il corpo di D’Amico più all’interno del magazzino; – il rinvenimento di tracce del DNA dell’imputato in corrispondenza della parte terminale di entrambe le gambe dei pantaloni indossati dalla vittima; – le tracce del DNA, come il ricorso non contesta, derivano da un prolungato e serrato contatto che ha determinato il trasferimento di essudato di materiale biologico (sudore umano misto a tessuti da sfaldamento superficiale della pelle), ritenuto dai tecnici il frutto del contatto fisico derivante dall’azione di trascinamento del cadavere attuata immediatamente dopo l’omicidio; – il rifiuto ingiustificato opposto dall’imputato di sottoporsi al prelievo del DNA senza metodi invasivi; 4 71( – l’esistenza di rapporti con la vittima relativi alla cessione di stupefacenti; – la presenza, derivante dall’esame dei tabulati telefonici, del telefono dell’imputato nelle vicinanze dell’abitazione della vittima in orario compatibile con l’omicidio; – il falso alibi relativo ai movimenti dell’imputato il pomeriggio nel quale è stato commesso l’omicidio. Quanto si è sopra ricordato consente anzitutto di rilevare la manifesta infondatezza della doglianza difensiva che addebita alla Corte territoriale di avere effettuato la datazione dell’omicidio, non tanto sulla base degli accertamenti tecnici, quanto piuttosto – ed erroneamente — in riferimento all’orario nel quale il telefono dell’imputato si trovava in una zona compatibile con il luogo dell’omicidio. L’asserzione difensiva è manifestamente infondata poiché l’orario del rilevamento del telefono dell’imputato nei pressi dell’abitazione della vittima è stato impiegato, una volta individuato l’ambito temporale dell’omicidio sulla base delle prove scientifiche, documentali e circostanziali, per rafforzare dal punto di vista indiziarlo il quadro probatorio che ascrive a Gianmarco Paolucci l’azione omicida. Egli, infatti, oltre ad avere lasciato le proprie tracce biologiche sul corpo della vittima, è risultato presente nelle vicinanze dell’abitazione di D’Amico proprio nell’arco temporale nel quale l’omicidio è stato commesso. È bene, infatti, ricordare che il ricorso non contesta le risultanze dell’analisi tecnica dei tabulati telefonici dell’imputato e della vittima dai quali emerge che i due erano in contatto e che verosimilmente avevano fissato il precedente 21 novembre 2019 ore 13:35 un appuntamento proprio per il giorno dell’omicidio, tanto che il cellulare di Gianmarco Paolucci è stato rilevato in prossimità dell’abitazione di D’Amico alle ore 16:06 del 22 novembre 2019, mentre l’omicidio è stato commesso tra le ore 15:06 e le ore 19:12 del 22 novembre 2019. 3. Quanto al valore di prova dell’esame del DNA è utile ricordare che «in tema di prove, gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova piena e non di mero elemento indiziario, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, sicché sulla loro base può essere affermata la penale responsabilità dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti» (si veda, da ultimo, Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, Cospito, Rv. 283904 – 03). Non è, in effetti, contestato che il DNA rinvenuto sui pantaloni della vittima proviene dall’imputato alla luce dell’elevatissimo indice di identificazione riscontrato, nel caso di specie pari a 1023, mentre la scienza ritiene sufficiente per la certa identificazione un indice che supera 106.3.1. Il ricorso imputa alla sentenza di non avere però accertato quando il trasferimento si sarebbe verificato, così opinando per la non decisività della traccia da contatto (contatto cd. secondario o occasionale). La difesa si duole, in sostanza, che la sentenza abbia affermato che la semplice attribuzione del DNA all’imputato costituisce elemento di prova e non di semplice indizio della realizzazione dell’omicidio, evidenziando che tale elemento, semmai, costituisce un indizio poiché rappresenta un fatto statico (presenza di una traccia), rispetto al fatto da provare (omicidio) che è caratterizzato da una azione dinamica. In realtà, la sentenza impugnata attribuisce valore di prova (e non di semplice indizio) all’identificazione genetica compiuta per mezzo dell’analisi del DNA, sicché afferma che la traccia appartiene senza ombra di dubbio all’imputato, con ciò facendo corretta applicazione del principio di diritto costantemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 48349 del 30/06/2004, Rizzetto, Rv. 231182, seguita da Sez. 2, n. 43406 del 01/06/2016, Syziu, Rv. 268161, secondo la quale «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen, sicché sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti», e da Sez. 2, n. 8434 del 05/02/2013, Mariller, Rv. 255257). […]”
Inoltre, “i giudici di merito hanno sottolineato, senza ricevere una critica specifica, che la difesa non aveva dedotto alcun elemento concreto a sostegno dell’ipotesi del cd. trasferimento secondario od occasionale che è stata introdotta e sviluppata con l’atto di appello, non potendosi valorizzare la generica affermazione fatta dall’imputato che, allorché venne sentito come persona informata sui fatti, aveva riferito agli operanti di essersi recato in epoca imprecisata nell’abitazione della vittima notando la presenza sul tavolo dei “panni del D’Amico piegati». L’affermazione dei giudici di merito, secondo i quali l’ipotesi difensiva oltre ad essere indimostrata e pure implausibile, è avversata dalla difesa che si limita però a ribadirla. La critica difensiva è vana perché sono proprio le dichiarazioni dell’imputato, sulle quali è stata sviluppata la tesi difensiva, che sono generiche e francamente incredibili in quanto egli non colloca temporalmente l’episodio e neppure afferma che vi è stato un prolungato contatto con entrambe le parti prossimali dei pantaloni indossati dalla vittima, limitandosi a dichiarare che un certo giorno c’erano dei capi di abbigliamento sul tavolo nell’abitazione della vittima. Orbene, se neppure l’imputato ha fornito elementi per ipotizzare il cd. trasferimento occasionale o secondario, la difesa si è, poi, prodigata per contestare l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese. […] Costituisce elemento di prova a carico, come correttamente affermato dai giudici di appello, il rifiuto opposto dall’imputato a consentire al prelievo non invasivo di un campione biologico ai fini di estrarre il suo DNA da raffrontare con quello rinvenuto sulla scena del crimine. Non vi è dubbio, anzitutto, che Gianmarco Paolucci, quando non soltanto non era indagato, ma anzi quando neppure era tra i sospettati, ha rifiutato di consentire al prelievo di un campione biologico allorché ciò gli fu richiesto al pari di altre decine di persone che erano in contatto con D’Amico per le più disparate ragioni; nella circostanza, peraltro, il rifiuto fu perentorio, reiterato e immotivato. Il rifiuto, in particolare, dimostra che l’imputato era ben consapevole del contesto omicida nel quale aveva lasciato le tracce biologiche rinvenute sui pantaloni della vittima, perché diversamente si sarebbe messo a disposizione degli inquirenti senza attendere oltre un anno dall’omicidio ed essere appositamente convocato dalla polizia giudiziaria, alla quale non ha però riferito di avere avuto rapporti amicali con la vittima e di averla anche incontrata nella sua abitazione al cospetto dei suoi indumenti, riservando tale incredibile dichiarazione alla fase successiva all’esame del suo DNA, risultato identico a quello rinvenuto sugli indumenti della vittima.
Quindi la questione del movente: “Tenuto conto che le critiche sviluppate sul movente non sono decisive, posto che i giudici non lo hanno accertato, è sufficiente rimarcare che il ricorso non contiene una critica specifica all’affermata falsità dell’alibi introdotto dall’imputato. I giudici di secondo grado espongono analiticamente (pag. 46 – 48) i numerosi elementi probatori e logici che li hanno condotti a tacciare di falsità l’alibi introdotto dall’imputato, coinvolgendo il proprio fratello, la madre e il padre. Ebbene, si tratta di elementi che il ricorso neppure esamina, sicché può dirsi accertato che Paolucci ha falsamente riferito (da ultimo nelle spontanee dichiarazioni rese all’udienza del 2 novembre 2022) di essersi recato altrove (prima dal fratello e poi dal padre) nel pomeriggio dell’omicidio, risultando piuttosto che l’imputato non si trovava a Bagno Piccolo nel primo pomeriggio (come attesta il fratello), posto che risulta esser stato tracciato nei pressi dell’abitazione della vittima alle ore 15:46 e alle ore 16:06, e, per di più, in occasione del primo contatto rilevato egli ha ricevuto la chiamata della madre che, a tutta evidenza, doveva trovarsi nell’abitazione famigliare dove, secondo le sue dichiarazioni e quelle del fratello, avrebbe dovuto essere l’imputato. Analogamente falso è l’alibi fornito dal padre dell’imputato che, in una conversazione captata, annuncia proprio l’intenzione, d’intesa con la madre, di aiutare il figlio a sfuggire alle maglie della giustizia, rendendo poi una falsa dichiarazione circa i movimenti del figlio che è stata smentita dalle prove tecniche e documentali. […] Parimenti inammissibili, anche perché non decisive, sono le doglianze che riguardano il mancinismo, la ludopatia e le piste alternative.[…]”
“L’irrilevanza della mancanza del movente ai fini della responsabilità per l’omicidio (ex multis, Sez. 1, n. 31449 del 14/02/2012, Spaccarotella, Rv. 254143 – 01) esonera dall’analizzare specificamente le doglianze difensive sul punto della ludopatia. È inammissibile, non foss’altro perché il ricorso si limita alla mera enunciazione della doglianza senza articolarla in una critica specifica, la questione delle piste alternative che gli inquirenti non avrebbero esplorato. È sufficiente ribadire, posto che il ricorso non si confronta con tale decisiva considerazione, che le indagini furono attivate ad ampio raggio e, anzi, da subito mirate su soggetti diversi dall’imputato che fu coinvolto occasionalmente nelle investigazioni, a distanza di oltre un anno dall’omicidio e dall’estrazione del DNA reperito sui pantaloni, allorquando gli investigatori, riesaminando i contatti intrattenuti dalla vittima, individuarono un possibile collegamento con l’imputato che, soltanto a questo punto, fu invitato, come già era accaduto a numerose altre persone che erano venute in contatto con la vittima, a fornire un campione del proprio DNA”.
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