«In Antartide non ci sono persone, ma da qui studiamo le malattie»

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Su una penisola nella baia di Terra Nova, lungo la costa della Terra Vittoria settentrionale in Antartide, tra le lingue dei ghiacciai Campbell e Drygalski, si trova la stazione Mario Zucchelli.

A 12 ore di fuso orario dall’Italia e a otto ore di volo dalla prima città in Nuova Zelanda, in una terra di ghiacci ai confini del mondo, vive per qualche mese Elena Bougleux, professoressa associata in antropologia culturale presso l’università degli studi di Bergamo e membro dell’unità di ricerca dell’università Ca’ Foscari di Venezia.

È arrivata il 31 ottobre 2024 e rimarrà fino a fine febbraio 2025 per raccogliere campioni di microbioma umano. La ricercatrice partecipa al progetto Antartic-ome (Human microbiome transmission in the extreme confined built environment of Antarctica), nato per studiare la trasmissione orizzontale del microbioma umano in ambiente estremo e controllato.

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Unico nel suo genere, lo studio combina approcci di tipo microbiologico/bioinformatico ed etnografico, per rispondere alla domanda di ricerca alla base del progetto volto a comprendere il ruolo delle interazioni sociali nell’acquisizione dei microrganismi associati all’uomo e nella loro conseguente influenza sulla salute umana.

Il progetto, inquadrato nel Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, è finanziato dal Mur (Ministero dell’Università e della Ricerca) e gestito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) per il coordinamento scientifico, dall’Enea per la pianificazione e l’organizzazione logistica delle attività presso le basi antartiche e dall’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale  – Ogs per la gestione tecnica e scientifica della nave rompighiaccio Laura Bassi. L’obiettivo, capire come e quanti microorganismi si trasmettono tra individui che condividono gli stessi spazi, tra coinquilini, tra marito e moglie o anche semplicemente tra amici dopo aver preso un caffè al bar. Ma perché studiare la trasmissione dei microorganismi?

Lo studio 

Elena Bougleux ci risponde alle nove di sera dal suo ufficio completamente illuminato dalla luce solare, che a questa latitudine appare fredda e accecante attraverso lo schermo del pc in videochiamata. «Bisogna tener presente che noi esseri umani siamo abitati da microorganismi (batteri, virus, funghi) con diverse capacità, funzioni e caratteristiche, che compongono il microbioma umano. Siamo il risultato di una convivenza tra il nostro corpo e queste forme di vita. Pensare che bisogna liberarsi dai batteri perché portano malattie è un errore.

Foto PNRA

Alcuni di questi microorganismi sono patogeni, ma la maggior parte di queste forme di vita che ci abitano sono portatrici di materiale genetico utile al funzionamento del corpo umano. Il materiale genetico di un essere umano viene trasmesso in linea verticale, quindi di genitori in figli, ma anche in modo orizzontale, attraverso l’acquisizione di microorganismi provenienti dagli ambienti in cui viviamo o dal contatto con altre persone».

Ma perché studiare il patrimonio genetico dei microorganismi? «Perché è 80 volte più importante e quantitativamente maggiore del nostro patrimonio genetico, trasmesso dai genitori. Il nostro patrimonio genetico è composto dai geni ereditati dai genitori e dai geni dei microorganismi che occasionalmente e casualmente riceviamo dalle persone con cui interagiamo. Noi quindi alla stazione Zucchelli stiamo studiando la trasmissione del microbioma umano in una comunità di estranei, isolata poiché non ha rapporti con il mondo esterno, che convive nello stesso ambiente e nelle stesse condizioni.

Nella vita normale sarebbe complicatissimo studiarlo, perché ognuno di noi ogni giorno ha contatti con diverse persone che a loro volta hanno contatti con altre persone ancora. Invece, qui siamo una settantina di persone che per qualche mese condividono cibo, spazi, strumenti di lavoro e perfino l’aria. Questo confinamento rende la comunità tracciabile».

Lavorare in condizioni estreme 

La comunità di ricercatori in Antartide inoltre è anche sottoposta alle stesse condizioni esterne, che in ambienti estremi come questo sono spinte al massimo e influiscono sul microbioma umano. «Ora si registrano temperature di -2 o -3 gradi, perché è estate. Quando sono arrivata a novembre invece le temperature si aggiravano sui -10 con punte di -20 gradi. Poi abbiamo 24 ore di esposizione ai raggi ultravioletti. E il vento catabatico, tipico polare, sopraggiunge all’improvviso e supera i 100 km orari», abbassando notevolmente la temperatura percepita. Non sono condizioni ottimali per vivere ma perfette per lo studio.

A chi potranno servire i risultati di questa ricerca? «Se il microbioma si trasmette in modo orizzontale e il nostro microbioma può essere modificato da elementi esterni, come è stato già confermato da vari studi, possiamo iniziare a individuare le cure per le malattie genetiche, o almeno cominciare a studiare i meccanismi di intervento sulla trasmissione delle malattie infettive e metaboliche, per arrivare a quello che si chiama medicina personalizzata». 

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Ma per i risultati bisognerà aspettare. «Tutto il materiale raccolto deve essere soggetto a sequenziamento e verrà analizzato in Italia alla fine della missione, nei laboratori del Cibio dell’università di Trento, dal gruppo di ricerca di Nicola Segata, il bioinformatico che guida il progetto.

In particolare, io prelevo settimanalmente campioni biologici, come per esempio pelle e saliva, di miei colleghi e di me stessa. Conservo questi campioni in provette e tubini, che alla fine della missione verranno imbarcati in un container frigo della nave rompighiaccio Laura Bassi per essere portati in Italia. Ogni campione è accompagnato dalla sua descrizione e da vari codici. Come antropologa annoto su quaderni e file tutti gli scambi e le reti di relazioni avvenuti tra le persone, rese anonime, nella stazione».

Una giornata antartica

Ci fa immaginare la sua giornata tipo? «Si lavora tantissimo. Ci si sveglia per le 7, alle 8 ogni mattina c’è una riunione di tutta la base per organizzare le attività del giorno. Poi ognuno si dedica al proprio lavoro, quindi ci si ritrova a ora di pranzo. Siccome è sempre giorno è fondamentale mantenere la scansione dei pasti per simulare un bioritmo normale. Poi si riprende a lavorare fino alle 6/7 in base o fuori, io seguo i miei colleghi. Ogni uscita ad ogni modo deve essere autorizzata, anche se voglio fare il giro della base per sgranchirmi le gambe devo comunicarlo alla sala operativa».

Foto PNRA

Fuori dalla stazione, una distesa di ghiaccio abbaglia la vista. «È esteticamente bellissimo, non la smetto di fare foto. Appena sono arrivata, mi sono messa a correre nella neve. Per quanto mi fossi preparata, avessi studiato l’Antartide, l’avessi vista nei video dei colleghi, ero al settimo cielo. Sento il privilegio di poter partecipare a questo progetto. Se non per motivi di lavoro o ricerca non si può venire in Antartide».

Vivere nella stazione però può anche essere stressante. «La sensazione dell’isolamento è pesante. Non c’è altro da fare che lavorare, gli spazi per rilassarsi sono condivisi. Le camere sono da quattro, con due letti a castello. Io sono fortunata ad avere un ufficio tutto mio».

La stazione, inoltre, ha un forte impatto sull’ambiente. «In Antartide non ci sono abitanti né città, eppure è il luogo dell’Antropocene, dove gli umani sono arrivati per fare quello che vogliono, prima di tutto ricerca, ma non solo. Anche una base come la nostra è impattante, crea energia, produce rifiuti, richiama mezzi di mare, aria e terra», ricorda Bougleux, autrice dell’articolo Incertezza e cambiamento climatico nell’era dell’Antropocene. «Viviamo un’epoca di interferenza tra azioni umane, ovvero impatti sull’ambiente che gli umani non hanno previsto, e le retroazioni di queste interferenze sulla capacità umana di agire. In Antartide questo è particolarmente visibile».

Recentemente l’Antartide, «nella regione opposta alla nostra, ha registrato temperature record di 20 gradi sopra la norma. Mentre il ghiaccio sulla costa dove ci troviamo si scioglie e si riforma per un fenomeno stagionale, il ghiaccio perenne all’interno dell’Antartide si abbassa, i ghiacciai arretrano e si frammentano, quindi sempre più iceberg vanno alla deriva e si sciolgono in mare».

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Da antropologa culturale, con una particolare formazione in fisica, Elena Bougleux osserva tutto questo. Perché «l’antropologia è vedere», come dice il professor Marotta (Silvio Orlando) nel film Parthenope di Paolo Sorrentino. «Ma è anche entrare nelle vite degli altri, negli spazi umani, nelle trame dell’esistenza. E poi raccontare, perché questa dimensione sociale e collettiva possa servire al resto delle conoscenza».

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