di Cosimo Risi
Joe Biden lascia la Casa Bianca a Donald Trump, da lui l’aveva “affittata” per il quadriennio 2020-24. Per ambedue i Presidenti si tratta della seconda volta. Biden c’era stato per otto anni da Vice di Barack Obama, la sua candidatura a succedergli fu superata da quella, infruttuosa, di Hillary Clinton. Ci tornò da Presidente nel 2020 vincendo il duello con Trump, il quale gli organizzò una sommossa di protesta per i presunti brogli elettorali.
La transizione 2025 si svolge in maniera civile. È preceduta dalla cerimonia in suffragio di Jimmy Carter, il Presidente centenario che la tira fino all’ultimo desiderio: votare per Kamala Harris, la candidata democratica che però perde contro Trump. Il quale Trump cessa di denigrare Carter per onorarlo in morte mentre scambia battute con Obama seduto al suo fianco.
L’intreccio americano è degno di un feuilleton ottocentesco o, per essere alla moda, di una serie TV. Il fatto nuovo che odora di vecchio è il ritorno di Trump. Che promette sfracelli come e più della volta precedente. Questo mandato, sempre che non si manipoli la prassi costituzionale, sarà anche l’ultimo. Insomma, a bocce ferme, egli lavora per la storia. Scrivere il suo controverso nome nell’albo del Nobel per la pace: come, appunto, Obama e Carter, i criticati, da lui, predecessori democratici.
Le avvisaglie ci stanno tutte e contribuiscono a sbiadire l’immagine già pallida di Biden. Biden è il Presidente meno rimpianto dall’opinione pubblica americana. Il suo indice di gradimento all’uscita è più basso di Trump e dell’inarrivabile Obama. Egli spera in una revisione del giudizio, sempre che giunga finché è in grado di conoscerla.
Presidente double face, verrebbe di definirlo. Difensore dei diritti umani, moralizzatore della vita pubblica contro le tecno-plutocrazie, amante della pace a contenimento dell’apparato industriale-militare. Queste le dichiarazioni di intenti del secondo Presidente cattolico dopo John Kennedy, con lui condivide la religione e l’origine irlandese. Italo-americana la moglie Jill, la coppia si presentava al cospetto del Pontefice nel giusto abbigliamento, non nella giusta postura. Era nota l’apertura di Biden sui temi dell’aborto e dell’omosessualità.
L’Ucraina è stato il suo banco di prova in politica estera. Ha chiamato l’Occidente a raccolta per sostenere l’Ucraina invasa dalla Russia. Non ha raccolto un consenso più ampio in seno all’ONU. Si sono moltiplicati i distinguo anche da parte di paesi vicini all’Occidente, si pensi soltanto a Brasile e India. L’emergere dei BRICS in cerca di un multipolarismo per superare l’unipolarismo euro-americano è la nuova frontiera delle relazioni internazionali.
Quanto se non più di Vladimir Putin, un “cattivo” classico, un preteso amico gli ha procurato la contestazione più insidiosa. Benjamin Netanyahu ha lavorato per il suo avversario e successore. Le missioni in Israele del Segretario di Stato, l’ebreo Antony Blinken, misuravano l’incapacità dell’Amministrazione di piegare Israele alla propria visione. E d’altronde Biden si muoveva lungo un sentiero strettissimo: garantire la sicurezza di Israele schierando l’armata americana a sua difesa; spingere il Governo Netanyahu alla moderazione, il governo più a destra della storia dello Stato.
Una missione pressoché impossibile. La situazione si è parzialmente sbloccata alla vigilia del cambio di guardia. La tregua fra Israele e Hamas, per il tramite del Qatar, è stata appena firmata. Lo scambio dei prigionieri avviene alla vigilia del giuramento.
Da una parte, Biden raccoglie il frutto del lavorio diplomatico di quasi un anno: il testo odierno somiglia molto a quello da lui proposto nel maggio 2024, nel frattempo una caterva di vittime e la lunga prigionia degli ostaggi a Gaza. Dall’altra, la firma premia la determinazione di Trump. Questi invia il proprio inviato a Gerusalemme, l’ebreo Steve Witkoff tanto per stare sul sicuro, a convincere Netanyahu ad accettare la tregua. Il linguaggio è nello stile del personaggio: tu fai quello che devi e continuo ad appoggiare le tue rivendicazioni, non fare quello che ti chiedo e metto in discussione il sostegno militare. Il motto di Trump spiega la nuova temperie: ottenere la pace con la forza.
Netanyahu firma senza tergiversare ulteriormente, perde un pezzo della coalizione, rattoppa la maggioranza con l’apporto dell’opposizione, minaccia che continuerà la guerra se la tregua sarà violata dalla controparte. Consegna al nuovo Presidente il primo successo in politica estera prima che diventi Presidente. Not bad, indeed!
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