Dall’auto circondata da decine di miliziani di Hamas a volto coperto, sono scese domenica i primi tre ostaggi israeliani rilasciati dal movimento islamista. Tre donne, simbolo dell’inizio di una tregua tutt’altro che definitiva. I volti stanchi e pallidi, ma come riferito dalle autorità israeliani in buone condizioni. Gli abbracci con le madri, i pianti, i sorrisi. La felicità del ritorno. Ma anche sul fronte palestinese hanno ritrovato la libertà 89 ostaggi: 69 donne tra cui una minorenne, otto minori maschi e 12 uomini condannati per reati relativamente minori. Di loro si è parlato poco, e ancora meno delle condizioni di detenzione che hanno subito. E dalle loro testimonianze emergono racconti agghiaccianti.
“Mi hanno fatto tornare al Medioevo”– “Le guardie gettavano nelle celle il gas lacrimogeno. Ci hanno pestato, non ci permettevano di avere contatti con l’esterno, non avevamo alcuna assistenza medica. Per sei mesi mi hanno tenuta in isolamento in una stanza larga un metro e lunga due, senza poter vedere la luce del sole, senza un libro da leggere, talvolta tagliandomi la razione di acqua. Già in passato sono stata nelle prigioni israeliane, però questa volta mi hanno fatto tornare al Medioevo“. A parlare a Repubblica è Khalida Jarrar, 62enne e voce storica dell’attivismo palestinese. È una componente di spicco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, organizzazione attiva fin dagli anni ’60, protagonista anche della Seconda Intifada e che da Israele, Stati Uniti e Ue è designata come organizzazione terroristica. È stata deputata, eletta al Parlamento palestinese nel 2006 e nell’ultimo decennio è stata a più riprese arrestata e rilasciata, sebbene mai condannata per coinvolgimento diretto nelle azioni militari del Fronte Popolare. Nel 2007 le è stato vietato di viaggiare all’estero, divieto poi revocato nel 2010 per consentirle di ricevere cure mediche in Giordania. Nel 2021 a Khalida fu negato un permesso su basi umanitarie per partecipare al funerale della figlia Suha. Così come a quello di suo padre e sua madre, tutti morti mentre era in carcere. L’ultimo arresto risale a dicembre 2023: l’hanno chiusa per gli ultimi sei mesi in isolamento sei mesi in isolamento, e lei non sapeva nulla di quello che stava accadendo “all’esterno di quel luogo oscuro, dove non riuscivo a respirare perché la cella o era gelida o era bollente”. Al suo avvocato aveva sintetizzato la sua quotidianità: “è come essere sepolta viva in una tomba”. Nella sua cella un bagno senz’acqua, nessuna finestra né fori di ventilazione. Il letto era una lastra di cemento con un materasso molto sottile, e nonostante il diabete le veniva dato cibo crudo. A confrontare le sue foto di oggi con quelle prima della detenzione è irriconoscibile (sopra). Solo dopo sei mesi ha “potuto parlare con qualcuno in carne e ossa”, ed è stato quando è stata liberata e ha incontrato suo marito. La strategia di Israele nei confronti dei detenuti è molto chiara per Jarrar: “Le israeliane non hanno rispetto per noi, ci vogliono togliere la dignità“. Quelle che subiscono i detenuti come lei, ha continuato, “sono misure coercitive illegali, mi hanno tolto un altro anno di vita e nessuno si degna nemmeno di dirmi perché. Tantissimi sono nelle condizioni in cui eravamo noi, è un’emergenza nazionale su cui dobbiamo concentrare l’attenzione”.
“Calcio del fucile e sangue. Ci pettinavamo con le forchette” – Un altro ostaggio rilasciato, Dania Hanatsheh, 23 anni, parla sempre a Repubblica dell’umiliazione delle perquisizioni corporali. Degli stessi vestiti indossati per settimane, della mancanza di tempo per lavarsi. Delle botte subite col calcio del fucile e del sangue che colava, di un mese impiegato per guarire. “Non ci permettevano di indossare l’hijab e l’abaya, ci lasciavano un minuto al massimo per fare la doccia, una goccia di shampoo alla settimana, alla fine ci pettinavamo con le forchette”, racconta invece Rarid Walid Amer, anche lei studentessa universitaria che racconta anche l’escalation di violenza dopo i fatti del sette ottobre. Da allora la ferocia delle guardie è esplosa: “Una volta ci hanno radunato in una stanza, cinquanta donne in uno spazio di tre metri per sette, e le forze speciali sono venuti a picchiarci, aizzando i cani per spaventarci”.
Botte durante qualsiasi tragitto – Chi è uscito dalle carceri palestinesi si racconta anche ad Haaretz, che in un lungo reportage firmato da Jonathan Pollak raccoglie le testimonianze di ex detenuti. Parla di malattie, botte, persone lasciate quasi morire di fame, torture. Le percosse avvenivano in qualsiasi situazione: durante gli appelli, le perquisizioni, gli spostamenti in tribunale. E per questo in tanti chiedevano agli avvocati di essere giudicati in contumacia, per evitare trasferimenti fatti di abusi e dolore. “Una volta, durante l’appello mattutino – ha raccontato Malek all’autore – eravamo tutti in ginocchio con la faccia rivolta verso i letti. Una delle guardie mi afferrò da dietro, mi ammanettò le mani e le gambe e mi sputò addosso, in ebraico, “Vieni, ti aspetta un viaggio.” Mi ha preso per le manette da dietro la schiena e mi ha condotto, piegato, lungo il corridoio accanto alle celle. Per uscire dalla corsia bisogna attraversare una piccola stanza, tra due porte. Ognuna delle quali ha una piccola finestra”. Così, continua Malek, “siamo arrivati lì e mi hanno messo contro la porta, di fronte alla finestra. Ho guardato dentro e ho visto che il pavimento era completamente coperto di sangue rappreso. Ho sentito la paura passare come elettricità attraverso il mio corpo. Sapevo esattamente cosa sarebbe successo. Non appena hanno aperto la porta, uno è entrato e si è fermato accanto alla finestra più lontana, l’ha bloccata e l’altro mi ha gettato dentro sul pavimento”. A quel punto “mi hanno preso a calci. Ho cercato di proteggermi la testa, ma ero ammanettato, quindi non avevo modo di farlo. I colpi erano brutali. Pensavo davvero che mi avrebbero ucciso. Ad un certo punto mi sono ricordato che la sera prima qualcuno mi aveva detto: “Quando ti colpiscono, urla a squarciagola, cosa ti importa, non può andare peggio, e forse qualcuno ti sentirà e verrà” per aiutarti.” Allora ho cominciato a gridare davvero e, infatti, è venuto qualcuno. Non capisco l’ebraico, ma c’è stato uno scambio tra loro due. Poi se ne sono andati e lui mi ha portato fuori”. Storie simili costellate di violenze anche quelle di Nazar, Khaled. Awfiq racconta il prezzo da pagare per ogni incontro con l’avvocato. “Sapevo ogni volta che il percorso del ritorno, tra il parlatorio e la cella, avrebbe aggiunto almeno tre contusioni. Ma non mi sono mai rifiutato di andare. Solo per vedere qualcun altro chi ti parlava come un essere umano, magari vedendo qualcuno nel corridoio lungo la strada, per me valeva tutto”.
“Colpiti ai testicoli con una mazza” – Munther Amira ha perso 33 chili durante la detenzione. Racconta dell’arrivo in cella, nella prigione di Ofer, di un’unità di primo soccorso, accompagnata da due cani. “Hanno ordinato ai detenuti di spogliarsi e restare in mutande e di sdraiarsi sul pavimento, e poi hanno ordinato ai cani di annusare il corpo e il viso dei detenuti. Poi hanno detto ai prigionieri di vestirsi, li hanno portati nelle docce e li hanno bagnati con acqua fredda mentre erano vestiti”. Munther una volta aveva anche chiesto aiuto per un compagno che aveva tentato il suicidio. “La punizione per aver chiesto aiuto – si legge ancora nel reportage – è stata un’altra irruzione dei primi soccorritori. Questa volta tutti nella cella furono fatti sdraiare uno sopra l’altro e picchiati con i manganelli. Ad un certo punto, una delle guardie ha allargato le gambe e li ha colpiti ai testicoli con una mazza”.
“Una volta tornati in cella nessuno ha detto una parola” – In carcere coperte e lenzuola erano bagnate. L’acqua disponibile un’ora al giorno, giorni e giorni senza acqua calda. Un mese per ottenere un pezzo di sapone. Vestiti coperti di sangue ma che non potevano essere cambiati. Odore di morto nelle celle, i corpi che ammassati crollavano a pezzi continuando a respirare. La fame. L’urina rossa perché il corpo stava consumando i muscoli per sopravvivere, stavano morendo di fame. E poi il cibo, spesso avariato. Riso cotto solo a metà, uova marce. Ci sono celle che hanno moltiplicato i detenuti, ma senza aumentare le razioni. E poi ci sono le violenze, gli stupri. Come quella subita da Burhan: “Venne condotto in uno spazio condiviso. Lì c’erano i detenuti che erano stati portati fuori dalla cella prima di lui, sdraiati sul pavimento uno sopra l’altro, nudi e sanguinanti. Una guardia lo ha spogliato, bendato e con calci, imprecazioni e minacce, lo ha spinto a terra. Sono stati picchiati, racconta, mentre giacevano lì, nudi e ciechi, mentre i cani giravano intorno a loro e annusavano i loro corpi”. A un certo punto sente un dolore lancinante al retto, dove gli avevano infilato un oggetto. Non sa quanto sia durato tutto questo, non sa se ad altri in quel momento sia stata fatta la stessa cosa. Ma ricorda che una volta tornati in cella nessuno ha detto una parola. Dice che per un po’ di tempo non è riuscito a camminare normalmente e che “per una settimana c’era sangue nelle feci e nelle urine“. Nessuna assistenza medica. Le denunce e i racconti di violenza e abusi corrono in silenzio, ma sono sotto gli occhi di tutti: sui social ci sono video in cui i detenuti sono completamente nudi. “L’utilizzo della perquisizione corporale come occasione per perpetrare un’aggressione sessuale, di solito mediante un colpo all’inguine con la mano o con il magnetometro – si legge ancora su Haaretz – , è un’esperienza quasi standard, citata regolarmente da chi è stato detenuto”.
“Un assorbente per tutto il ciclo” – Ci sono anche le donne. Racconta Munira di essere stata interamente spogliata una volta entrata in carcere: poi una guardia è arrivata, l’ha picchiata, e infine le ha rigettato addosso i suoi vestiti. Il giorno dopo le era iniziato il ciclo: le è stato dato un solo assorbente per tutto il periodo mestruale. Una volta uscita dal carcere soffriva di una grave infezione al tratto urinario. Tutte queste pratiche, scrive Haaretz, sono note da anni. Anche l’Onu è a conoscenza di quanto accade nelle prigioni israeliane: a maggio il medico palestinese Adnan Al-Bursh, 50 anni, capo del reparto di ortopedia della più grande struttura medica di Gaza, l’ospedale al-Shifa, è morto in una prigione israeliana dopo più di quattro mesi di detenzione. “Pare che fosse stato picchiato in prigione e che sul suo corpo fossero presenti segni di tortura”, si legge sul sito dell’Onu. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Cisgiordania e Gaza, si è detta “estremamente allarmata” dalla notizia della sua morte e ha invitato la comunità diplomatica ad adottare misure concrete per proteggere i palestinesi. Parole cadute nel vuoto.
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