Addio a Luca Beatrice, eterno critico “militante”, che ha portato la pittura italiana nelle grandi mostre internazionali

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Lo sentiremo dire spesso in questi giorni, “ho fatto tante litigate con lui”. Sì, con Luca Beatrice, spentosi stamattina dopo ore di notizie sempre più allarmanti sulla sua salute in seguito a un malore improvviso, era difficile non discutere, battibeccare, litigare anche a volte, aspramente se capitava, per poi tornare a parlarsi con il consueto garbo e rispetto, con l’amicizia e la reale stima umana e professionale, pur nelle diverse, spesso diversissime visioni, magari sulla politica, sull’arte o (per chi ama il calcio, non certo io) sul tifo, con lui così tenacemente e appassionatamente iuventino. E quella di Luca Beatrice è stata infatti una storia di idee, di passioni, di dibattiti, di accese discussioni tenacemente sostenute, perché Luca era uno che, come si dice in gergo, “non le mandava a dire”, e che, soprattutto, aveva una visione sempre netta e chiara delle cose, fossero quelle dell’arte o della politica.

La sua formazione, come quella di molti dei critici della sua e della nostra generazione, era quella, onnivora e aperta ai molti ambiti della cultura diffusa, pur da specialista con ottimi studi alle spalle ma sempre con interessi e curiosità tra i più vari e disparati, che andavano dalla letteratura (aveva scritto libri e guidato per dieci anni il Circolo dei Lettori di Torino con la carica di Presidente, organizzando moltissime mostre e presentazioni di libri), al cinema, su cui – lui che sulla storia del cinema si era per l’appunto laureato –, aveva curato mostre ed era intervenuto in molti modi; e poi, non certo secondaria, alla musica, soprattutto se rock (aveva, anche in questo caso, scritto libri e curato mostre sull’argomento, e proprio per un articolo sul rock, dedicato al ritorno dei Rolling Stones con il loro ultimo album Hackney Diamonds e al rapporto di questi con l’arte, l’avevo chiamato, poco più di un anno fa, a collaborare con questo giornale; e lui, con la consueta affabilità e amicizia che mi dimostrava quando non discutevamo pubblicamente, mi aveva detto: “Non avrei neanche il tempo di pensarci, ma a te non dico mai di no, lo sai”: e mi aveva scritto un bellissimo pezzo; e chissà a quanti altri, amici e colleghi, aveva detto e diceva le stesse parole, perché comunque Luca era uno che non si tirava mai indietro, e che coltivava il rispetto per il lavoro e per la storia altrui dimostrandolo sempre con i fatti).

Dispiace, oltre che dal punto di vista umano (aveva da poco avuto il terzo figlio, e a Pietrasanta, in estate, era bello incontrarlo sempre in giro, con la sua barba ormai canuta ma sempre con il figlioletto accanto, come accade di vedere certi giovani neo-papà poco più che trentenni, lui che invece, di anni, ne aveva già più di 60); ma dispiace, dicevo, anche dal punto di vista lavorativo e storico-critico, che un male improvviso abbia stroncato la sua vita in un momento tanto importante per lui, quando stava finalmente per varare la prima edizione della Quadriennale, di cui era stato nominato Presidente all’incirca un anno fa: scelta che noi, dalle colonne di questo giornale, avevamo applaudito con entusiasmo (Luca Beatrice è Presidente della Quadriennale. Scelta azzeccata per un ente nato per valorizzare l’arte italiana), scrivendo testualmente che “Luca Beatrice, ottimo critico, talent scout di giovani talenti fin dalla prima ora, attento e acuto esegeta della miglior pittura italiana, giornalista culturale di razza, battitore libero nel senso più autentico del termine, teorico di un approccio metodologico “sul campo” più che sussiegosamente ripiegato nella torre d’avorio delle teorie aprioristiche del contemporaneo e della curatela per dir così “prudente” e circospetta”, Luca Beatrice, dunque, “possiede il curriculum perfetto, ottimale, per una manifestazione che, fin da tempi non sospetti, celebra il “genio italico” in ogni sua forma, indagando e monitorando, appunto, l’estrema varietà e complessità dell’arte – dalla pittura alla scultura alle tecniche installative alle nuove tecnologie – sparsa a pioggia sul territorio italiano”. E fa male vedere che sia mancato proprio alla vigilia della realizzazione della mostra, prevista per l’autunno prossimo, della Quadriennale, che sotto la sua guida e con la co-curatela di una manciata di colleghi come “compagni di strada”, prevedeva, e prevede tutt’ora, la realizzazione di una grande, esaustiva carrellata dedicata alla pittura, o meglio all’arte, “fantastica” (“un aggettivo che sembrerebbe iperbolico”, spiegava in un’intervista recente il neo-presidente, “ma è invece un invito a riscoprire la potenza del simbolico”).

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Luca, del resto, sull’arte italiana, ma in particolare sulla pittura, aveva scritto e investito molto. Gliene dobbiamo dare atto, gliene abbiamo dato atto tante volte, ed è stata proprio la pittura italiana il “terreno comune” che ha legato lui con molti colleghi critici, me compreso, della generazione nata negli anni Sessanta: l’amore per la “nuova” pittura italiana, da lui amata, seguita, appassionatamente sostenuta (alla Biennale di Venezia, di cui è stato direttore del Padiglione Italia nel 2009 assieme a Beatrice Buscaroli, portò una squadra di ottimi pittori, che anch’io ho amato e sostenuto, come Nicola Verlato, Daniele Galliano, Luca Pignatelli, Marco Cingolani, Davide Nido, Roberto Floreani, oltre a bravissimi artisti “digitali” come Matteo Basilé, un geniale artista fuori da ogni schema come Marco Lodola e scultori straordinari come Aron Demetz e Bertozzi & Casoni); l’amore per la pittura, dunque, è stato forse il vero fil rouge che ha caratterizzato la sua vocazione di storico dell’arte, ma soprattutto di quel misterioso mestiere che un tempo si chiamava fare il “critico militante”. E non c’è dubbio che lo sia stato eccome, Luca Beatrice, un critico militante, come molti altri tra noi, quei critici che, nei primi anni Novanta, spesso anche da sponde diverse quando non opposte (Beatrice su Flash Art, quasi unico a parlare di pittura dalle colonne del giornale che più di tutti difendeva le nuove tendenze e le nuove pratiche installative, io con Maurizio Sciaccaluga dal più “popolare” e divulgativo Arte Mondadori, Demetrio Paparoni su Tema Celeste, Gianluca Marziani tra libri e mostre diffuse, e qualche altro critico qua e là), hanno difeso e sostenuto le sorti di una pittura che, se oggi è rientrata a pieno titolo nell’alveo delle pratiche artistiche anche più “contemporanee”, per anni è stata invece emarginata dai “grandi giri” del collezionismo più à la page, perché sottostimata e considerata “vecchia”, passatista o semplicemente “provinciale”.

E critico militante, in fondo, Luca lo è rimasto fino alla fine, anche dalle sponde “istituzionali” a cui ormai era avvezzo: ovvero un critico sempre sulla breccia, polemico e battagliero, sempre pronto a portare linfa, punti di vista e idee a un sistema troppo spesso annoiato, altezzoso, sonnecchiante, avvitato sul suo stesso ombelico. Militante, certamente, in favore dell’arte e della pittura italiana, da lui così tenacemente apprezzata, esposta e sostenuta, anche dalle pagine del suo ultimo, bellissimo libro, quel suo Le vite – Un racconto provinciale dell’arte italiana, che ben testimonia non solo del suo grande e decennale lavoro “sul campo”, come compagno di strada, testimone, esegeta del lavoro dei moltissimi artisti, i più diversi, che affollano il panorama artistico italiano, ma anche, come già scrivevamo da queste colonne, della sua vocazione, per l’appunto orgogliosamente e autenticamente “provinciale”, nel senso di una rivendicazione di attaccamento a ciò che di meglio i campanili, intesi come le città e le cittadine, ma anche le scuole regionali, le comunità di artisti e finanche i singoli studi isolati di artisti sparsi ovunque sul territorio, sanno offrire in termini di forza identitaria, di ricchezza e varietà dei linguaggi, di ricerca profonda del senso del fare arte.

Sono tante, tantissime le mostre curate, i progetti realizzati, le docenze in università e accademie, le istituzioni presiedute, i libri scritti sull’arte, italiana e non solo, di Beatrice: il suo è stato, non c’è dubbio, un profilo multiplo, sfaccettato, diversificato, come accadeva “naturalmente” a molti intellettuali della generazione cresciuta e formatasi, piaccia o no il termine, nel pieno di quel “week end post-moderno”, come lo chiamò Tondelli, che sono stati gli anni Ottanta: un profilo di alta cultura, ma molto “pop”, in senso letterale di “popolare”, come testimoniavano i suoi articoli sempre attenti, analitici, puntuali, sempre chiari e a volte fin troppo polemici e tranchant in certi loro giudizi di chiarissima polemica politica, contro quelli che lui, con malcelato fastidio, criticava come gli eterni “conformismi” della sinistra, in tutti i campi, dal cinema alla musica alla letteratura fino alla satira.

Ma della sua vocazione per ciò che si muove ai margini, ai confini e non necessariamente al centro del dibattito artistico corrente, ci piace anche ricordare la necessità, che aveva, e che abbiamo sempre apprezzato, di staccare lo sguardo dal centro nodale delle pratiche artistiche strettamente intese, per mettere meglio a fuoco la realtà culturale nel suo insieme, cogliendo i sottili legami che intercorrono tra le diverse discipline, i fiumi sotterranei che si intersecano, sotto la superficie, tra un linguaggio e l’altro, i rimandi, gli omaggi, le citazioni reciproche, che fanno dell’ampio campo dell’arte, della musica, del cinema, della letteratura, un unico e vasto terrain vague, da studiare nei diversi rimandi e nelle diverse differenze di ogni singolo linguaggio rispetto agli altri, per comprenderli, capirli, studiarli, ognuno nel suo specifico e tutti nel loro insieme. “Lavorando nell’ambito delle arti visive, e interessandomi in particolare ai cosiddetti ‘giovani artisti’ ormai da circa un decennio”, scriveva nel 1999 nell’introduzione al suo libro Stesso Sangue – DNA di una generazione (Minimum Fax edizioni), “mi ritrovo molto più affascinato da fenomeni esterni rispetto a un linguaggio specialistico e autoreferenziale come la critica d’arte: penso infatti che per accostarsi in maniera più diretta e senza troppi filtri all’opera sia soprattutto necessario rivolgere lo sguardo al di fuori”. Quel “fuori”, da cui sempre ha tratto l’energia e la lucidità anche per vedere e comprendere al meglio ciò che quotidianamente accadeva e si muoveva qua, nell’arte, proprio sotto i nostri occhi.





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