Il recente rapporto di Amnesty International, che accusa Israele di aver condotto un genocidio contro i palestinesi durante le operazioni militari a Gaza, ha attirato una notevole attenzione sia a livello mediatico sia politico. Lo studio si basa su interviste a 212 persone, tra cui vittime, sopravvissuti ad attacchi aerei, testimoni della distruzione di case, terreni agricoli e infrastrutture, membri di autorità locali, operatori sanitari e rappresentanti di ONG e agenzie delle Nazioni Unite impegnati nella risposta umanitaria a Gaza. La conclusione principale del report è che, nel periodo compreso tra il 7 ottobre 2023 e i primi di luglio 2024, Israele avrebbe messo in atto azioni corrispondenti a tre elementi chiave definiti dalla Convenzione del 1948 sulla Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio: “Uccidere membri del gruppo”, “causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo” e “infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita volte a provocarne la distruzione fisica in tutto o in parte”. Amnesty sostiene inoltre che tali atti sarebbero stati compiuti con lo specifico “intento di distruggere, in tutto o in parte, il gruppo, in quanto tale”.
Si tratta di accuse estremamente gravi, che richiedono un esame approfondito da parte di esperti legali e indipendenti. Tuttavia, è essenziale riflettere anche sulla metodologia utilizzata nel rapporto, che presenta alcune criticità significative.
Un elemento cruciale in studi di questa natura è la rappresentatività del campione intervistato. Per garantire che i risultati siano generalizzabili all’intera popolazione, è essenziale che le persone selezionate siano sufficientemente numerose e individuate con metodi adeguati, come la selezione casuale o stratificata. Nel caso del report di Amnesty, il numero di intervistati, 212 (di cui 74 coinvolti in maniera diretta o indiretta in 15 attacchi aerei condotti da Israele), appare forse insufficiente per rappresentare una popolazione di 2,2 milioni di persone. A titolo di confronto, una revisione sistematica condotta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla salute mentale nei conflitti armati ha analizzato nel 2019 i dati di 129 studi provenienti da 39 paesi pubblicati tra il 1980 e l’agosto 2017 distribuiti su diverse aree geografiche per garantire un campione rappresentativo e stratificato. Allo stesso modo, il lavoro del Centro Internazionale per la Giustizia Transizionale (ICTJ) in Colombia ha raccolto testimonianze da migliaia di persone in modo capillare, analizzando le esperienze delle vittime del conflitto per costruire un quadro più completo e dettagliato della situazione.
La mancanza di rappresentatività nel rapporto di Amnesty, combinata con l’assenza di una metodologia chiaramente esplicitata per la selezione del campione, lascia spazio a dubbi sulla validità generale delle conclusioni. Ad esempio, non è chiaro se siano state prese in considerazione variabili come la diversità socioeconomica, le differenze geografiche o la presenza di comunità marginalizzate. Chi vive nei campi profughi potrebbe avere esperienze e opinioni molto diverse rispetto a chi risiede in aree urbane più residenziali.
Le interviste sono state condotte sia in loco sia a distanza, principalmente dai ricercatori di Amnesty, che tuttavia non hanno potuto accedere direttamente alla Striscia di Gaza, non avendo ottenuto i permessi dalle autorità israeliane o egiziane. Per ovviare a questo ostacolo, Amnesty si è affidata a operatori locali (fieldworkers), incaricati di individuare i sopravvissuti e i testimoni e di assistere durante la compilazione dei questionari tramite chiamate vocali o video.
Questo approccio, pur consentendo la raccolta di testimonianze, comporta rischi significativi di distorsione. Gli operatori locali potrebbero aver selezionato persone con esperienze più drammatiche, trascurando altre prospettive. Inoltre, potrebbero aver agito con un pregiudizio, consapevole o meno, nel cercare di confermare una specifica narrativa. Questo rischio aumenta considerando l’assenza di supervisione diretta da parte dei ricercatori di Amnesty sul campo.
Un altro limite è rappresentato dalla possibile esclusione di individui che, per motivi di sicurezza, paura o mancanza di risorse, non hanno potuto o voluto partecipare all’indagine. Anche la lingua delle interviste, prevalentemente l’arabo, potrebbe aver introdotto errori di interpretazione o traduzione. Inoltre, considerando che molti eventi discussi risalgono a mesi prima delle interviste, vi è il rischio di dimenticanze o distorsioni nella memoria degli intervistati. Le persone più inclini a partecipare potrebbero essere quelle con esperienze particolarmente traumatiche, mentre chi ha vissuto situazioni meno gravi potrebbe non aver sentito la necessità di condividere la propria storia.
Un’ulteriore critica al rapporto riguarda il focus quasi esclusivo sulle azioni di Israele, con solo accenni marginali alle violazioni commesse da Hamas (Amnesty assicura nel testo che si occuperà dei crimini perpetrati da Hamas in una prossima pubblicazione). Questa scelta metodologica rischia di offrire una visione incompleta degli eventi e di influenzare negativamente la percezione complessiva della situazione. Sebbene Amnesty abbia deciso di concentrarsi su un aspetto specifico del conflitto, una maggiore trasparenza su questa scelta e un’analisi più equilibrata delle violazioni di entrambe le parti avrebbero rafforzato la credibilità del rapporto.
In passato, Amnesty International ha condotto ricerche di grande rilievo che hanno contribuito a importanti cambiamenti. Ad esempio, il suo rapporto del 2011 sulle violazioni dei diritti umani in Siria ha fornito prove fondamentali per l’avvio di indagini internazionali. Un altro esempio significativo è il suo lavoro del 2004 sulla tortura e i maltrattamenti nella prigione di Abu Ghraib in Iraq, che ha attirato l’attenzione globale e portato a riforme nelle pratiche di detenzione degli Stati Uniti. Questi successi dimostrano la capacità di Amnesty di produrre rapporti incisivi, basati su standard rigorosi di ricerca e metodologia. Tuttavia, nel caso del rapporto su Gaza, una maggiore trasparenza e un campione più rappresentativo avrebbero rafforzato la solidità del documento e mitigato eventuali critiche.
Il rapporto di Amnesty International affronta una tematica estremamente importante come la violazione dei diritti umani, ma solleva dubbi significativi sulla metodologia adottata. Per dissipare tali perplessità, sarebbe stato necessario coinvolgere un campione più ampio, spiegare dettagliatamente i criteri di selezione di tutti gli intervistati e bilanciare l’analisi includendo in modo più equo le responsabilità di tutte le parti coinvolte nel conflitto.
Daniele Radzik
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