La vedova nera – Centro Studi La Runa

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Un giallo (ma non solo) di Giuseppe Del Ninno

Avevamo contezza che Giuseppe Del Ninno, autore che leggiamo da anni, avesse capacità scrittorie non comuni. Esse si mostrano, in tutta evidenza, nelle pagine della sua ultima fatica, La vedova nera. La prima indagine di Ernesto Di Gianni, nelle librerie per Bietti (pp. 197, euro 18,00). Si tratta di un romanzo “giallo” di grande pregio. Condividiamo quanto, nell’Introduzione, ha scritto Stenio Solinas: «Il giallo è […] soprattutto una questione d’atmosfera […] di stile […] quello che resta non è il delitto […] ma ciò che ci rimane dei dialoghi, delle descrizioni, della storia nel suo dipanarsi» (p. 10). Tali tratti connotano il volume di Del Ninno. Se ne era accorto, una decina di anni fa, Raffaele La Capria che lesse il manoscritto e in una lettera all’autore, raccolta ora nell’Appendice del libro, scrisse: «È un poliziesco scritto bene, soprattutto quando si ferma sui personaggi resi realisticamente, coi sudori, gli odori, la parlata […] Poi c’è Roma […] quella realistica e non convenzionale» (p. 197).

Lo scritto è stato lungamente pensato, rivisto. La prosa, intervallata dal pensare ad alta voce del protagonista, l’investigatore privato Ernesto Di Gianni, irpino trapiantato a Roma, è accattivante, fluida, capace di coinvolgere il lettore nelle complesse vicende che costituiscono la trama. Ernesto, scapolo solitario e trasandato nell’abbigliamento, vive in un mini appartamento che diviene, nei momenti del bisogno, rifugio sicuro per le sue meditazioni. A nostro parere, se abbiamo ben inteso, ha dei precedenti letterari di tutto rilevo. Da un lato ha ravvivato nella nostra memoria la figura del commissario-filosofo Francesco Ingravalle, prodotto della creatività di Gadda e protagonista indiscusso di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana. Questi era aduso guardare, proprio come Di Gianni, oltre i dati meramente empirici del reale, mirando a ciò che, in realtà, muove le nostre vite. Le vicende de La vedova nera, peraltro, trovano sviluppo a Grottaferrata, nei Castelli romani, proprio come quelle che videro coinvolto Ingravalle. D’altro lato, l’investigatore dell’agenzia Italmondo, i cui uffici sono ubicati nel cuore di Roma, a Via Frattina è un flâneur benjaminiano che vaga oziosamente, a piedi o sulla sua Giulietta, per le strade assolate della Capitale sul finire degli anni Sessanta. L’incanto di Roma non era stato ancora del tutto deturpato dall’avvento della civiltà dei consumi: «La città è ancora intorpidita nella controra e le strade sono poco trafficate, sotto la canicola; dai finestrini entra aria bollente» (p. 19). Ernesto ha tratti, quindi, non dissimili dal Maigret di Simenon, ma anziché intrattenersi con gli avventori delle brasseries della rive gauche e fumare la pipa, colloquia con i frequentatori dei bar o delle vinerie, sorseggiando caffè o calici di Frascati fresco, con una Nazionale tra le labbra.

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L’incipit del volume ha un altro antecedente letterario, ci pare, ne L’orologio di Carlo Levi. Ernesto rompe l’orologio dopo aver sbattuto il polso sul tavolo sul quale aveva perso l’ennesimo partita a “scopetta” con Vittorio, figlio del titolare dell’agenzia investigativa. Il patròn, la cui descrizione sembra rinviare a un personaggio realmente esistito, Tom Ponzi, oltre ad altre riviste, collezionava “il Borghese”. La Roma descritta da Del Ninno manca del tratto malinconico che le dette Levi: ne L’orologio questi testimoniò la propria disillusione per la fine degli ideali della Resistenza. È di certo una Roma popolana, quella che emerge nella pagine del libro di cui ci occupiamo, ma ancora poetica e suggestiva: «un cagnetto randagio si è acquattato in un brandello d’ombra fra due macchine in sosta» (p. 43). I suoi palazzi mostrano l’eleganza signorile di un tempo: «balaustre e colonne di marmo, statue nelle nicchie, lampadari su ogni pianerottolo, guide rosse e corrimano di legno scuro» (p. 51). Una Roma abitata da personaggi “vivi” quali “Mister Ok” (anch’egli realmente esistito) “venditore di telline” di origini francesi, promanante acre olezzo di pesce che, in occasione del Capodanno, si gettava nelle acque del Tevere.

Del Ninno descrive questo mondo in modalità sinestetica, ricorrendo all’ausilio di tutti i sensi. Lo fa, in particolare, nella descrizione del risveglio del protagonista nel letto di Marisa, che svolgeva il “lavoro più antico del mondo”. Quel risveglio è totalità di vita: «gli risalgono per le narici […] il sentore acido delle cicche spente nel portacenere sul comodino […] lo sguardo scivola dai capelli animati da qualche riflesso ramato giù verso la schiena nuda […] il tatto riattivato mentre la donna si rigira nel dormiveglia […] il gusto: un bacio a labbra semiaperte sulla nuca» (p. 97-98). L’incontro con il “femminile” è davvero essenziale in questo testo: Ernesto sa che la donna, anche la prostituta, o l’impiegata de Il Messaggero, Giulia, affondano la loro sensibilità nell’humus profondo dell’esistenza. Lo chiarisce la dolente figura della vecchia Patalano, residente in una Napoli eterna, città di origine della famiglia Del Ninno. L’anziana: «Sembra pattinar leggera sul pavimento di mattonelle esagonali nere e vinaccia, tirato a cera» (p. 81). Perfino la vedova nera, figura ambigua, resa tale dalla vita, che affida la ricerca del marito scomparso dieci anni prima all’Italmondo, conserva queste caratteristiche. Sono queste donne ad aiutare l’investigatore a districare la matassa di un caso complicato.

Per quanto attiene alla trama “gialla” vera e propria, il lettore sappia che si tratta di una spy story ben congeniata: la scomparsa di Mario Carosi, marito della vedova, nasconde omicidi, un tentativo di avvelenamento con arsenico perpetrato da sua moglie, il coinvolgimento di servizi segreti italiani e stranieri, che tentano di intimidire Di Gianni, avvenimenti posti tutti sullo sfondo della guerra fredda. Lasciamo al lettore il gusto di scoprirne i particolari. Qual è la scoperta più importante dell’ investigatore-filosofo Ernesto? Questi scopre: «L’ennesima prova […] che l’essere umano preferisce le cattive notizie a conferma di sospetti insopportabili, piuttosto che vivere nel dubbio» (p. 139).  Al contrario dei più, Di Gianni vive, nonostante la sua esistenza materialmente misera, sempre nel dubbio. Come tutti gli uomini pensanti conduce la vita in solitudine e sa che le vite umane, anche quelle di chi delinque, sono appese all’irrompere del possibile che, a seconda dei casi, meraviglia o atterrisce. Egli guarda agli uomini con compassione, senza giudicare moralmente i loro atti.

Del Ninno, rileva Solinas, scrive per puro “piacere”. Il piacere, ci ha insegnato un amico ormai scomparso, Fausto Gianfranceschi, è antidoto alla degenerazione e volgarizzazione della vita cui assistiamo. Dona serenità. Per questo, il lettore accorto de La vedova nera esce rasserenato dalle sue pagine.



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