Palermo, le stragi e l’omicidio di Boris Giuliano

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Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


La seguente intervista ha un valore tragico, poiché vi compare un personaggio per il quale il copione era già stato scritto. E nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo.

Quella sera arrivammo tardi. quando lo spettacolo era finito oramai. L’automobile bianca, una Fiat 124 sport, era stata trainata via da una «pantera»: i tre morti erano stati esaminati. scrutati, fotografati da tutte le posizioni, deposti delicatamente in tre bare e portati all’obitorio. Anche il sangue era stato lavato dall’asfalto e restava solo un tenue disegno di gesso bianco, per indicare la sagoma di Ignazio Scelta; come cioè l’uomo, negli ultimi tre secondi della sua vita, era riuscito a spalancare lo sportello della vettura e mettere un piede a terra. E qui la sua vita era finita: pallettoni di lupara e proiettili calibro 38 in tutto il corpo.

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Così era caduto bocconi e il perito della polizia aveva diligentemente disegnato col gesso la sagoma sul selciato. C’erano poche persone sul marciapiedi, le insegne della piazza dell’Uditore erano spente, da un paio di balconi trapelava un filo di luce, tirava vento con un odore di salmastro portando già le prime gocce d’acqua.

Il silenzio, quelle ombre umane che si allontanavano adagio, quegli ultimi lumi che si andavano spegnendo, l’imminenza della pioggia: l’atmosfera era davvero quella oramai distratta ma ancora un po’ eccitata del dopo teatro. In quale altra arena al mondo, teatri greci o palcoscenici celebri, è possibile assistere a tragedie così spettacolari e vere, come talvolta accade in una piazza di Palermo?

Senza annuncio, teatro happening, direbbero gli esteti, gli spettatori coinvolti anche loro, non c’è trama, non c’è prologo né conclusione: essendo in Sicilia, anche questo spettacolo ha una sua beffarda significazione pirandelliana: questa sera si recita a soggetto. In ogni caso si replica, non si sa quando e non si sa dove, e comunque con altri personaggi perché di solito i protagonisti, qui, appaiono una volta sola e scompaiono per sempre.

Ecco, la pioggia avrebbe ora lavato la piazza dell’Uditore, cancellato dal selciato quell’esile traccia di gesso che disegnava il corpo di Ignazio Scelta, e di Ignazio Scelta si sarebbe perduto probabilmente tutto per sempre: anche il nome di chi lo aveva ucciso e perché.

Quella sera riuscii solo a sapere che aveva 71 anni, che era stato per molti anni il luogotenente più fidato di Pietro Torretta, chiamato il «lupo» dell’Uditore, capomafia famoso, un piccolo uomo glabro e sinistro che non rideva mai, che era diventato padrone di un quartiere, era stato condannato a ventidue anni di carcere per omicidio ed era morto per insufficienza renale al confine dell’Asinara.

A Pietro Torretta era succeduto un altro ras, chiamato Michele Cavataio: tutto l’opposto, un uomo alto, grasso, sanguigno, incline alla buona tavola, alla risata, una grande testa violenta, assolto con applausi al processo di Catanzaro e poi massacrato insieme con altri quattro individui, in un cantiere di via Lazio. Ed era così giunto il momento di Ignazio Scelta che aveva cominciato proprio dalla gavetta ed aveva ricevuto la sua consacrazione in un’aula di Assise: accusato di avere assassinato il ras di Cruillas, era stato assolto, e una folla di cinquecento persone aveva tributato all’imputato ed ovviamente anche alla Corte di giustizia, una ovazione di trenta secondi.

Sull’ala di quegli applausi Ignazio Scelta era diventato il padrone del quartiere, era quasi vecchio oramai, ma aveva prudenza, astuzia, buonsenso, buona educazione, come tutti coloro che partono da zero e via via nella vita accumulano esperienza e saggezza. L’eco di quell’applauso è durata fino alle ore 19,45 dell’ultima sera allorché il vecchio, seduto in quella Fiat bianca insieme a due giovanissimi fedeli, Rosario Vitale e Girolamo Siino, ha visto un’automobile blu frenare di colpo accanto al suo sportello.

Ha capito tutto in un lampo. Non per nulla era riuscito a vivere settantunanni ai quali oramai c’erano da aggiungere solo tre secondi: il tempo di spalancare istintivamente lo sportello e gettarsi fuori. Un balzo breve incontro a due colpi di lupara e alcuni proiettili di calibro 38. Nello stesso momento morivano, proprio senza nemmeno aver capito niente, anche i due ragazzi Siino e Vitale, troppo giovani ancora per percepire esattamente quando arriva la fine della vita.

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Di loro non restava nemmeno un disegno di gesso sull’asfalto. Due brevi vite, due comparse in un happening tragico che a Palermo si replicherà da qualche altra parte, domani o fra un mese. Il copione forse è già scritto.

«Signor questore, allora la mafia è tornata esattamente come una volta, come venti, come dieci anni fa? Questa città è ancora sua?» Il questore Epifanio è un siciliano alto, triste, quasi monumentale, sta seduto ad una scrivania di cristallo nero dove tutti gli oggetti sono posti in ordine perfetto, il portacarte di cuoio, il taccuino degli appunti, due penne diritte come antenne, un portacenere di cristallo senza una cicca o una sbavatura di nicotina. Alle sue spalle, da una piccola foto in cornice, sorride malinconicamente il minuscolo e malinconico volto del presidente Leone.

Ci guarda con quella sorridente malinconia come a dire: con i casi Loockheed, il processo di Torino, le Brigate rosse, voi state qui a parlare di mafia? L’equivoco italiano è sempre questo: una tragedia nazionale si sovrappone all’altra e per qualche tempo (talvolta per sempre) la nasconde. Con identica malinconia, ma senza sorriso, mi guarda ora il questore Epifanio: «Io ho accettato di riceverla per riguardo alla professione del giornalista. Ma non posso rispondere ad alcuna domanda!» Silenzio.

Per l’occasione il questore ha convocato nel suo studio il capo della Criminalpol, Contrada, e il capo della Squadra mobile, Giuliano. Stanno dinnanzi a me, su due poltroncine, in silenzio, con malinconia anche loro, le gambe accavallate, le dita intrecciate, Contrada è un bell’uomo con i lunghi capelli grigi, l’aria distinta e impercettibilmente scettica di chi ne ha viste tante oramai, cioè tanti morti in mezzo alle strade. Ha assistito a tanti spettacoli.

Giuliano invece è più piccolino, nervoso, con una giacca di velluto scuro, una enorme cravatta, un paio di baffoni spioventi, a incontrarlo per la strada lo si potrebbe giudicare un artista, un designer di moda, un giovane allenatore di calcio. Tutti e quattro in silenzio, il fotografo fa timidamente cenno che’ vorrebbe scattare una foto, il questore marca negativamente un sopracciglio, il fotografo fa un piccolo inchino di scuse e torna a sedere nell’angolo.

«Naturalmente non posso rispondere su fatti precisi, personaggi, crimini sui quali sono ancora in corso le indagini, particolari, indizi, moventi, prove ancora coperte dal segreto istruttorio o dalla necessità investigativa…» Il questore ha avuto finalmente un sorriso, forse un po’ rassegnato, riordina adagio tutte le cose che sono già estremamente ordinate sul suo scrittoio, consente con un moto delle palpebre che il fotografo possa scattare qualche istantanea, parla con me e nello stesso tempo parla anche con i suoi due più importanti gregari e collaboratori.

Prima di continuare aspetta ogni volta che l’uno o l’altro abbia consentito silenziosamente: «La mafia è un fatto! Cioè un fenomeno. Cioè una realtà. Bisognerebbe modificare totalmente una realtà sociale, anzi bisognerebbe sradicare l’anima della gente e sostituirla con un’altra anima. Ma allora saremmo svedesi, non saremmo più siciliani, non ci sarebbe più quella fantastica cattedrale, quei palazzi, quei monumenti, quei vicoli, quel mare, questi esseri umani.

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Io sono un servitore dello Stato al quale è stato affidato il compito di combattere il crimine, di prevenirlo dove è possibile. E noi questo facciamo, giorno e notte, in ogni strada, quartiere, piazza, contrada di questa città che sfiora il milione di abitanti. Una cosa posso dire con assoluta certezza: fra tutte le grandi città italiane Palermo è quella con il più basso indice di criminalità…» «Signor questore, quarantuno omicidi nell’ultimo anno…?» «Dico criminalità comune, ladri, rapinatori, teppisti, scippatori, quella criminalità che è diventata l’incubo dei grandi agglomerati urbani, che assalta, depreda, saccheggia, uccide, devasta.

Nelle grandi città italiane quasi sempre, dopo le nove di sera, le strade si fanno deserte, le famiglie hanno paura ad affrontare l’oscurità: qui a Palermo la gente è tranquilla, le famiglie vanno a teatro, al cinema, ai ristoranti. In realtà sentono la nostra presenza dovunque, non c’è un fatto, un pericolo, una imminenza, un fenomeno, che non sia diventato oramai soprattutto un fatto di polizia: la mancanza dell’acqua e la rivolta di migliaia di donne nei quartieri poveri, uno sciopero studentesco che paralizza le vie del centro, un assalto di senza tetto alle case popolari, il crollo improvviso di un palazzo, la sorveglianza delle banche, degli uffici postali, il presidio alle manifestazioni politiche ed artistiche, alle prime teatrali, alle zone del centro.

Una volta nei quartieri miserabili, o comunque nelle zone popolari, il poliziotto era un nemico, veniva accolto a sassate e insulti, attorno al piccolo delinquente si faceva quadrato contro gli agenti. Ora invece il poliziotto è accolto come un amico, un pacificatore, qualcuno che arriva sempre per portare soccorso, per mettere d’accordo, per evitare la violenza, per proteggere dalla violenza.

Palermo è una città alla quale offriamo giorno e notte una garanzia di vita civile!» «Cento assassinii negli ultimi due anni!» Il questore volge uno sguardo interrogativo al capo della squadra mobile il quale rispettosamente fa un cenno di assenso «Su per giù!», e il questore riprende la sua sorridente dignità di servitore fedele dello Stato.

«Io dirigo la questura di Palermo solo da alcuni mesi!» Alle sue spalle, dalla piccola cornice dorata, il volto aguzzo di Giovanni Leone continua a fissarci con l’aguzza malinconia del napoletano insigne, il quale sa le cose della vita e sorride, e par che voglia dirci: «In questi ultimi anni in Italia ci sono state stragi e attentati per moventi politici, e per l’identica ragione sono stati uccisi altissimi magistrati, funzionari di polizia, giudici, presidenti degli ordini forensi, giornalisti illustri, secondini delle carceri! E voi parlate di mafia… state pazziando?».

Il capo della mobile ci accompagna a visitare il suo reparto. E allegro spavaldo, si chiama Boris, scherza sui suoi baffoni alla russa, viene da Messina ma non ha la bonomia dei peloritani, è aggressivo, ridente: ecco uno al quale piace essere poliziotto, con quel tanto di avventuroso, di spregiudicato che conserva la professione. Parla della sua squadra mobile come un parroco potrebbe parlare della sua chiesa, un architetto del suo palazzo, come Trapattoni potrebbe parlare della Juventus.

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Ha un archivio perfetto dal quale emergono gli assassinii, come in un calendario, nomi, date, indizi, collegamenti, luoghi, caratteristiche, armi. Su tutta una parete c’è un gigantesco pannello luminoso che raffigura la città, divisa in quindici zone, ognuna presidiata da alcune volanti: basta che uno di questi quadranti si accenda, perché tutt’intorno al luogo dell’allarme si formi automaticamente una specie di cerchio con decine di autoradio, centinaia di uomini e di mitra.

Le camerate che circondano il grande cortile della Mobile sono costruite come quelle dei pompieri, con un grande buco sul pavimento e un palo di ferro al centro in modo che ad un allarme tutti gli uomini di guardia si possano lasciar scivolare in un attimo al pianterreno e slanciarsi sulle autoradio, già col motore acceso. Teoricamente, in meno di un minuto le volanti, sia di pattuglia che dalla centrale, possono arrivare in qualsiasi punto della città.

I criminali comuni lo sanno. Scippatori, rapinatori, teppisti, ladri a un ufficio postale. Ma in trenta secondi si possono uccidere tre uomini: il tempo di sparare quaranta cinquanta proiettili e alcuni colpi di lupare, girare l’angolo, gettarsi fuori dall’auto e magari tornare adagio verso il luogo della strage: che è stato, chi è il morto? In realtà la squadra mobile di Palermo è forse la meglio organizzata di tutta Italia e regge il confronto, anche sul piano della sofisticazione tecnica, con le più grandi città europee.

Il suo terminal, collegato al centro elettronico della capitale è in condizione, nel volgere di pochi secondi, di conoscere e interpretare decine di migliaia di situazioni e personaggi criminali, e quindi di dare ad ogni delitto una valutazione immediata quanto più esatta e completa. E intanto si estende sempre più la rete delle telecamere che scrutano le zone nevralgiche della città in modo da poter assicurare anche un controllo visivo e diretto degli avvenimenti, tanto più prezioso in occasione di fenomeni collettivi, nei quali è essenziale conoscere o anticipare le migrazioni violente di una folla.

Organizzata, quasi costruita, per le esigenze di una capitale moderna la squadra mobile di Palermo è divisa in sette sezioni: investigativa, omicidi, anti-rapine, furti, stupefacenti, volante e antimafia la quale ultima è destinata esclusivamente a tutti i crimini di matrice mafiosa, dall’omicidio alla latitanza dei colpevoli, all’estorsione, al controllo di tutte le attività, edilizia, mercati, appalti, cantieri, dove il fenomeno mafioso è presente o può fatalmente insorgere.

Boris Giuliano orgogliosamente afferma: «Ho quattrocento uomini a disposizione, tutti coordinati in una struttura di perfetta efficienza. Siamo in condizione di poter affrontare le indagini, contemporaneamente, anche su cinque omicidi in cinque posti diversi!»

E qui bisognerebbe ricordarsi come è fatta Palermo, cos’è diventata oramai: una città di quasi un milione di abitanti che si estende per oltre venti chilometri lungo la riva, e per sei o sette chilometri in profondità, una capitale dove arrivano e si affrontano, si alleano e si combattono tutti gli interessi più violenti, più oscuri, più spietati dell’isola.

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Un immenso agglomerato umano dove si incrociano e si sfiorano tutte le corruzioni, le prepotenze, le trattative, gli intrighi: una confluente obbligatoria per tutti i canali di potenza; un porto di arrivo e distribuzione d’ogni tipo di ricchezza, stanziamenti, contributi, prestiti bancari, dilazioni, finanziamenti, concorsi, stipendi, appalti, una città dunque all’apparenza maestosa, quieta e bellissima che nasconde però un’anima continuamente dilaniata e feroce come nessun’altra, una capitale dove tutto sembra accadere con una sonnolenza faraonica, e dentro invece è sconvolta da una inesauribile violenza.

Qui è dove si decide la spesa di migliaia di miliardi, dove, quando, a favore di chi, con l’alleanza di quali banche, l’appalto di quali impresari. Qui si stabilisce chi deve guadagnare e quanto, e quale percentuale deve pagare a sua volta, chi deve comandare e chi deve soccombere, i turni del potere, le obbedienze, le gerarchie, i canoni, i tributi, e se occorre talvolta anche la vita e la morte.

Quattrocento uomini devoti, efficienti, preparati, quattrocento poliziotti che sanno estrarre la pistola e sparare in tre secondi come gli sceriffi del Far West, che sanno accorrere in meno d’un minuto a circondare qualsiasi luogo dove un ufficio postale o una gioielleria siano state assaltate dai criminali, possono dare serenità alla famigliola borghese che la sera vuole andare al cinema e in trattoria, garbatamente acquietare un corteo di studenti, proteggere i palazzi dai ladri e le banche dai rapinatori.

E magari indurre il quieto borghese, dinnanzi alla notizia che tre esseri umani, tre mafiosi sono stati massacrati su una pubblica via, oppure cento individui sono stati assassinati in due anni, indurre questo pacifico protetto e dunque appagato cittadino a dire: «Requiescant! Cento di meno!» Senza nemmeno capire, anzi senza nemmeno chiedersi, come e perché. Quale tragica, orribile, insanguinata anima, viva, invisibile a tutti, dentro questa città così mansueta, nobile e regale persino nei suoi cenci. E in effetti è bella Palermo.

È diventata capitale. È solenne, malinconica, splendida, i viali favolosi pieni di insegne, le immense piazze con i monumenti della storia, i ristoranti di lusso, i palazzi di cristallo. Il tassista è un omino segaligno, un po’ sfottente, non sembra nemmeno tanto palermitano, indica quei palazzi di cristallo, si leva la cicca dall’angolo della bocca, perché il ghigno gli riesca più spontaneo: «Chissà quanti ce ne sono, murati dentro quel cemento». Ore 14 di un giorno qualsiasi.

Si replica. Stavolta la scena è una bettola della vecchia «Vucciria», dove tre giovani sono seduti ad un tavolo, in mezzo ad una folla di altri avventori. Dieci secondi di fuoco: il primo muore col torace sfondato dai pallettoni, il secondo resta a gambe e braccia spalancate sulla sedia con il petto trapassato dai proiettili, il terzo, col volto insanguinato, si getta verso l’uscita e qui un proiettile lo prende alla nuca, poi un altro. Il terzo proiettile lo coglie che ancora è dritto in piedi ma è già morto.

Di tre in tre, l’happening si replicherà, a data e luogo e personaggi da stabilirsi. Ore nove del mattino di un altro giorno qualsiasi. Boris Giuliano, il capo della squadra mobile, il ridente sceriffo di Palermo, agile, allegro, spavaldo, con quei baffoni alla tartara, la pistola infilata alla cintola, la sigaretta in bocca, il poliziotto più temerario e temuto di Palermo, il funzionario che comanda i quattrocento agenti più organizzati d’Italia, che in meno di un minuto possono bloccare un quartiere, esce di casa e va al bar dirimpetto a prendere il suo primo caffè.

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È più allegro del solito. Da qualche giorno si dice che abbia scoperto un filo, uno di quelli che collegano la mafia palermitana al colossale affare delle banche di Sindona. «Un caffè!» Mette le monete sul banco e in quell’istante un giovane entra nel bar alle sue spalle. Può avere venti, venticinque anni, nella destra impugna una calibro 38: spara da trenta centimetri addosso a Boris Giuliano, tre, quattro colpi, si volge per un attimo al proprietario del bar che sta urlando di terrore. «E tu muto!», poi si china sul corpo insanguinato di Boris Giuliano e gli spara il colpo di grazia alla testa. E l’assassino se ne va. Era a viso scoperto.

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