Il 2025 si apre con una promessa di protezionismo che solo qualche tempo fa ci avrebbe sorpreso e messo in allarme. In parte è così, ma solo in parte. Perché non ne siamo sorpresi? Perché quello che ci è stato anticipato durante l’ultima campagna elettorale statunitense è il trailer della seconda stagione di Trump’s Tariffs. Nella prima stagione, tra il 20 gennaio 2017 e il 20 gennaio 2021, Donald Trump aveva lasciato tutti sbigottiti, imponendo una virata netta al modo di concepire la politica commerciale, bloccando di fatto il Wto, avviando una guerra commerciale con la Cina e riportando in auge un termine desueto, quello di dazio, il cui uso regolamentato, condizionato, stabilito per consenso internazionale aveva portato alla nascita nel Secondo dopoguerra del Gatt, l’accordo internazionale per la regolamentazione degli scambi commerciali globali.
Quindi perché sorprendersi? Protezionismo, dazi e ragioni geopolitiche nella conduzione della politica commerciale sono oramai un dato di fatto. L’amministrazione Biden non ha cambiato rotta, il multilateralismo è paralizzato e anche l’Ue ha fatto dei dazi il suo strumento per la competizione tecnologica con la Cina. Ecco, forse il problema è proprio questo: la mancanza di sorpresa porta a un ridimensionamento dell’allarme. Dazi e protezionismo sono assunti come ineluttabili e si finisce per accettarne l’uso strategico, mettendone in secondo piano sia gli errori logici delle argomentazioni che ne giustificano l’adozione sia le reali conseguenze.
Secondo l’opinione di molti commentatori, Donald Trump utilizza la minaccia dei dazi per ottenere concessioni sia da Paesi amici sia da Paesi nemici. Adotta, quindi, quello che gli economisti Drew Fudenberg e Jean Tirole, parafrasando William Shakespeare, hanno chiamato il lean and hungry look: l’espressione evidente della propria determinazione nell’ottenere qualcosa. Dichiarare che verranno imposti dazi del 60% sulle importazioni dalla Cina, che si adotteranno dazi generalizzati del 10% o 20% su tutti i partner commerciali, inclusa l’Ue, e che l’eventuale scelta dei Paesi Brics di utilizzare una valuta di scambio diversa dal dollaro statunitense comporterebbe dazi al 100% è una strategia per indurre alla cautela i nemici e aumentare la disponibilità degli alleati – a incrementare la spesa militare o a fornire concessioni in Groenlandia, ad esempio.
Alcuni elementi danno ragione a chi considera le dichiarazioni di Donald Trump, in fondo, solo minacce che si ridimensioneranno col passare del tempo. Come Robert Armstrong ha recentemente scritto su “Financial Times” e come ha schematizzato Richard Baldwin, i suoi consiglieri economici, da Scott Bessent, segretario al Tesoro, a Howard Lutnick, segretario al Commercio, a Jamieson Greer, rappresentante commerciale per gli Stati Uniti (e principale consigliere, negoziatore e portavoce per le questioni di commercio internazionale), a Peter Navarro, consigliere commerciale nella precedente amministrazione Trump, a Kevin Hassett, prossimo direttore al Consiglio nazionale per l’economia, fino a Stephen Miran, neo-nominato responsabile del Council of Economic Advisers, non sono perfettamente allineati su posizioni radicalmente protezioniste. Anzi, alcuni tra loro sostengono apertamente l’annuncio di dazio come strumento negoziale. Il “Washington Post” ha recentemente pubblicato indiscrezioni sulla possibilità di un ammorbidimento della politica tariffaria rispetto alle dichiarazioni fatte in campagna elettorale. Ma Donald Trump ha prontamente smentito.
Inoltre, i vincoli costituzionali e le caratteristiche degli scambi commerciali statunitensi inducono a considerare poco probabile la traslazione automatica delle minacce di Donald Trump in misure ratificate. Orientativamente, gli strumenti istituzionali utilizzabili sono cinque: 1) l’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa) richiede che il presidente si appelli a evidenti ragioni di emergenza nazionale: l’adozione di misure protezionistiche richiederebbe requisiti procedurali minimi e consentirebbe di adottare misure ‘urgenti’ sin dal primo giorno di attività della nuova amministrazione; 2) il riferimento alla Sezione 232, utilizzata durante la prima presidenza Trump per imporre i dazi su acciaio e alluminio, prevede la dichiarazione dell’esistenza di una minaccia della sicurezza nazionale e la designazione di prodotti/settori specifici in cui si manifesti la minaccia; 3) la Sezione 301 della legge commerciale del 1974, utilizzata dalla prima amministrazione Trump per imporre dazi su 370 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina e su 7,5 miliardi dall’Unione europea, richiede l’evidenza di pratiche commerciali sleali; 4) la Sezione 338 prevede invece l’esistenza di discriminazione selettiva contro il commercio statunitense; e infine 5) la Sezione 122 può essere il riferimento legale nel caso in cui si verificasse una crisi della bilancia dei pagamenti. I margini di manovra di Donald Trump dipendono quindi dalla opportunità o possibilità di dichiarare che si è in presenza di una minaccia alla sicurezza nazionale, o che si avvii una fase di emergenza o che i propri partner commerciali adottino pratiche sleali. Questo non lo si può fare sempre, comunque e con tutti.
Le importazioni statunitensi sono, d’altra parte, fortemente concentrate. Nel 2023, l’80% delle importazioni proveniva dall’Unione europea (19%, pari a 589,46 miliardi di dollari), dal Messico (15%), dalla Cina (14%), dal Canada (14%) e da altri sei Paesi (Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Taipei, India e Regno Unito). Questa forte concentrazione rende improbabile l’adozione di dazi generalizzati del 10% o 20% su tutti i partner commerciali e più probabile l’opzione di pressioni bilaterali in alternativa al protezionismo globale.
Tuttavia, per diversi ordini di motivi, è improbabile che le minacce restino solo tali. Da una parte, le minacce credibili implicano di per sé la disponibilità a metterle in atto, e implementare anche solo una frazione di quanto è stato annunciato rappresenterebbe comunque il maggiore aumento dei dazi americani dagli anni Trenta, gli anni della Grande Depressione e della trasmissione internazionale degli effetti depressivi delle politiche protezioniste tra le due guerre mondiali. Inoltre, gli Stati Uniti rimangono la più grande economia del mondo, emettono la valuta di riserva e ospitano le banche e le aziende più grandi. Ciò che accade alla loro economia, ce lo ricorda la crisi finanziaria del 2008, finisce per avere ripercussioni ben oltre i confini nazionali.
D’altra parte, in un regime di protezionismo globale, serie conseguenze possono derivare anche dalle inazioni. Durante la sua precedente presidenza, Trump aveva imposto dazi del 25% sulle importazioni di acciaio dall’Ue e del 10% su quelle di alluminio. Nel 2021 gli Stati Uniti e l’Ue avevano però concordato di sostituire i dazi con un sistema di quote tariffarie che dovrebbe restare in vigore fino a marzo 2025 (a un costo annuo di 300 milioni di dollari per i produttori europei che esportano negli Stati Uniti). Il “Financial Times” riporta che, qualora non si arrivasse a una proroga dell’accordo, l’Ue avrebbe in programma di reintrodurre dazi su 4,8 miliardi di euro di importazioni dagli Stati Uniti. Inoltre, le tensioni commerciali nel settore siderurgico sono destinate ad aumentare nel 2026 con l’entrata in vigore del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Cbam), che imporrà dazi sulle importazioni in base alle emissioni di carbonio e colpirebbe anche l’acciaio statunitense. La scelta di Donald Trump di non rinnovare gli accordi siglati in passato non sarebbe, quindi, priva di conseguenze.
Più in generale, la perplessità nel considerare le affermazioni di Donald Trump come vuote minacce risiede sia in ciò che è accaduto durante la sua precedente amministrazione sia nella logica che porta il presidente a vedere nei dazi la soluzione per tutto: per una tassazione troppo elevata dei cittadini statunitensi, per il deficit commerciale e per un dollaro sopravalutato. Ad esempio, secondo Stephen Miran, i dazi portano soldi nelle casse dello Stato, permettendo una riduzione della tassazione sui redditi, e, se associati a un apprezzamento del dollaro, non determineranno inflazione e non ridurranno il benessere dei consumatori americani. Inoltre, in un regime di costante sopravalutazione del dollaro solo un uso massiccio e generalizzato di dazi porterebbe a una riduzione del deficit commerciale statunitense. Visto che gli Stati Uniti finanziano la stabilità economia mondiale attraverso il ruolo del dollaro come valuta veicolo e stabilizzano la sicurezza mondiale con la loro predominanza militare, è bene che le esternalità che gli Stati Uniti garantiscono agli alleati siano riportate a casa, a beneficio dei cittadini statunitensi. In un mondo di squilibri commerciali e squilibri finanziari, i dazi svolgerebbero il ruolo di fattore riequilibratore. Questa, in sintesi, l’idea di Stephen Miran di come gli Stati Uniti dovrebbero orientare il governo del commercio mondiale.
Che quelle di Donald Trump non siano solo minacce sta proprio in questo: una visione del mondo e della gestione degli equilibri mondiali sostenuta da discutibili, ma argomentate, ragioni economiche. Stephen Miran non è l’equivalente economico dei teorici del terrapiattismo o del pensiero no-vax, di quel sottobosco antiscientifico di cui Donald Trump ama circondarsi. Miran ha un dottorato ad Harvard, è un allievo di Martin Feldstein, a sua volta presidente del Council of Economic Advisers dal 1982 al 1984, con l’amministrazione Reagan, e mentore di una serie di economisti che hanno servito nelle diverse amministrazioni, da Larry Summers a James Poterba, da Lawrence Lindsey – consigliere economico di George W. Bush – a Harvey S. Rosen, presidente del Council sempre con Bush. Miran è coautore di Nouriel Roubini, che ne ha applaudito la nomina. Non è dunque uno sprovveduto. Alcune posizioni sono evidentemente contraddittorie: la previsione che l’uso di dazi non abbia un effetto inflazionistico, perché l’aumento dei prezzi interni dovuto alla tassazione delle importazioni verrà controbilanciato da un apprezzamento del dollaro, e che questo aumenterà il potere di acquisto degli acquirenti statunitensi di prodotti esteri – siano essi consumatori o imprese che richiedono beni intermedi internazionali – non è conciliabile con l’affermazione che i nuovi dazi aumenteranno i prezzi “artificialmente bassi” dei prodotti stranieri (in particolare cinesi), modificando i flussi commerciali e consentendo di aumentare la produzione nazionale. C’è poco da fare: se i prezzi dei prodotti importati aumenteranno, questo contribuirà all’aumento dell’inflazione. E secondo Kimberly Clausing e Maurice Obstfeld del Peterson Institute for International Studies di Washington, l’impatto sull’inflazione non sarà irrilevante.
Altre argomentazioni sono fondamentalmente fallaci, come l’obiettivo congiunto di difendere il ruolo del dollaro statunitense come valuta veicolo degli scambi internazionali o quello di ridurre il saldo commerciale statunitense, in costante deficit dal 1980, tramite politiche protezioniste. La difesa del ruolo del dollaro statunitense nel commercio mondiale non è solo esclusivamente retorica fondata sul ruolo simbolico del potere di una moneta come riflesso del peso economico del Paese che la emette, ma è cruciale per il controllo di mercati delle commodities e soprattutto dell’energia, di cui gli Stati Uniti sono diventati il maggior Paese esportatore. Ma il ruolo del dollaro ne sostiene la domanda internazionale, determinandone l’apprezzamento, e questo non può che portare a diminuire la competitività dei prodotti statunitensi e alimentare la condizione di deficit commerciale. L’equivoco fondamentale è rappresentato dall’illusione che il saldo commerciale di un Paese, dato dalla differenza tra esportazioni totali e importazioni totali, possa essere modificato intervenendo sui saldi commerciali bilaterali senza modificare l’offerta e la domanda aggregata. Se le imprese, i governi statali e federali e le famiglie statunitensi spendono più di quanto guadagnano o risparmiano meno di quanto investono, il divario deve essere colmato da un afflusso di investimenti dall’estero. Questo surplus nei flussi di investimento internazionali è la necessaria controparte del deficit commerciale, in quanto, per semplicità, queste due componenti della bilancia dei pagamenti devono essere di pari entità e di segno opposto per elementari ragioni contabili. L’aumento dei dazi bilaterali non può ridurre il deficit commerciale totale degli Stati Uniti: a parità di condizioni, ridurre il deficit bilaterale con la Cina significherebbe semplicemente aumentare i deficit con altri Paesi o ridurre le esportazioni. Il primo caso è esemplificato da quanto è successo con il Vietnam e il Messico durante il primo mandato Trump. La guerra commerciale con la Cina ha portato a una riorganizzazione delle reti di produzione e commercio, piuttosto che riportare negli Stati Uniti la produzione delocalizzata in Cina. Il secondo caso è ben noto in teoria, vista l’equivalenza degli effetti di un dazio sulle importazioni e di una tassa sulle esportazioni, ed è facilmente verificabile empiricamente, dal momento che le importazioni includono beni intermedi il cui maggior costo finisce per danneggiare la competitività sui mercati mondiali dei produttori nazionali che li utilizzano.
Ciò che appare più preoccupante non sono però le singole argomentazioni sull’effetto non inflazionistico dei dazi, sul riequilibrio della bilancia commerciale o sul contenimento dell’instabilità sui mercati reali e finanziari, ma la visione del mondo che vi fa da cornice. Una visione quasi esclusivamente macroeconomica, che dà scarso peso alla dimensione micro, alla eterogeneità tra le imprese – tra quelle grandi, dalla cui strategie di prezzo dipende in buona parte la dinamica dell’inflazione, e quelle piccole, che la subiscono – e, più in generale, tra gli attori economici. L’attenzione ai problemi di disuguaglianza è sostanzialmente assente e gli Stati Uniti sono visti come un unicum, dal punto di vista sia territoriale sia distributivo. E il livello di benessere di questo unicum e la sua capacità competitiva dipendono sostanzialmente dal costo dello Stato, dal peso che la sua burocrazia impone agli individui. E, quindi, ai dazi si deve affiancare una politica di deregolamentazione e di riduzione del ruolo dello Stato nell’economia che si immagina benefica per tutti i cittadini statunitensi.
Sul fronte internazionale, a prescindere dalle sfumature nelle modalità e nei fini delle politiche commerciali, tutti i consiglieri economici di Donald Trump vedono nel protezionismo tariffario lo stato naturale in cui gli Stati Uniti dovrebbero gestire le loro relazioni economiche. Ma questo implica che le istituzioni internazionali, nate proprio per controllare l’uso unilaterale e indiscriminato dei dazi, assumano un ruolo irrilevante, anzi dannoso. Implicitamente, se ne augura lo smantellamento. In un mondo a somma-zero, in cui i vantaggi di un singolo Paese equivalgono agli svantaggi per le sue controparti, il conflitto internazionale permanente è l’unica opzione prevista. E gli alleati devono adeguarsi a questo stato di cose, adottando analoghi dazi nei confronti della Cina e coordinando le politiche dei cambi in modo da sostenere il dollaro e ridurre l’instabilità finanziaria. Questo in cambio di protezione geostrategica. Ciò porta a trascurare un elemento fondamentale: se tutti i Paesi adottassero questa medesima visione del mondo e adottassero le medesime politiche tariffarie, come successe negli anni della Grande depressione, il risultato sarebbe la crisi globale.
Al mondo dei vantaggi reciproci, dei benefici della specializzazione, del coordinamento delle politiche multilaterali, delle catene globali del valore Donald Trump e i suoi consiglieri contrappongono un mondo a somma-zero. Questi sembrano essere gli anni che ci aspettano.
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