Le città che cessano di essere tali
Ho visto come muore una città, ho visto i cadaveri ancora caldi delle città. Da molti anni racconto il contemporaneo attraverso i grandi fiumi del mondo e lì, lungo questi grandi fiumi, ho assistito alla rottura dell’alleanza, che spesso è stata straordinaria sintonia, tra gli umani e l’ambiente. Lì mi è parso in tutta la sua cruda evidenza come anche le città più prospere possono soccombere agli effetti della protervia umana. In America questo accade in modo cruento: le città decadono, muoiono e si decompongono nel giro di due decenni. Può accadere non solo per infarto economico, per l’ossessione del profitto, ma anche per implosione sociale, se salta il patto di civiltà.
Quando sono arrivato a Cairo, posta alla confluenza dell’Ohio River col Mississippi, all’imbocco di Washington Street, ancora chiamata Millionaire’s Row, un vecchio orologio in ghisa segnava fisso le sette e trenta. Forse l’ora in cui, in un anno imprecisato, Cairo è morta di razzismo. Lungo quasi tutto il Novecento è stata lo snodo commerciale più importante del Midwest, il maggiore porto del Mississippi, terminale per l’acciaio e il mais, cinquecentomila vagoni l’anno. Ma anche l’epicentro del conflitto razziale che ancora dilania la nazione. Il napalm dell’odio ha generato un deserto d’infamia e povertà. Cairo è stata condannata a un presente immobile senza spazio e senza tempo, non gli è stata concessa una seconda occasione: un film dell’orrore, con le insegne arrugginite che cigolano nel vento, spettri di sbandati che s’intravvedono nelle vecchie ville patrizie, sorrette dai rampicanti e mangiate dai tarli. L’ospedale è chiuso, la piscina è chiusa, la stazione dei bus è chiusa, mentre c’è ancora la Central Station, ma i treni tirano dritto veloci, non degnano Cairo neanche di uno sguardo sdegnato, neanche un fischio di scherno. Dopo le otto di sera chiudono i distributori di benzina, il primo cinema si trova a settanta chilometri, in Kentucky. L’unica attività gestita da un nero è una barberia ricavata da un vecchio night club che fino a vent’anni fa si contendeva con Chicago le star del jazz. Cairo – l’ultima trincea dei suprematisti – è stata punita come Cartagine, cosparsa di sale da Scipione. Non funziona neanche Internet, le tacche si rifanno vive appena superi i confini urbani, quando comincia l’oceano di pannocchie.
“Cairo è stata condannata a un presente immobile senza spazio e senza tempo, non gli è stata concessa una seconda occasione”
Ho visto città cambiare colore. Il cielo sopra Noril’sk era viola, la tundra tutt’intorno alla città industriale dell’Artico russo verdognola. La neve, mi dicevano, a volte fiocca nera oppure arancione, e la nebbia può diventare tutt’a un tratto blu cobalto. Era stato un viaggio davvero allucinante quello nella regione di Noril’sk, 180 mila abitanti, la città più inquinata della Russia. Secondo Lars Rowe dell’istituto Nansen di Oslo, la più inquinata dell’intero emisfero settentrionale. La Manchester descritta da Dickens nel 1830 doveva essere più o meno così, e così era la Wigan di George Orwell nel 1937: “Un mondo da cui la vegetazione sembra sia stata bandita, nulla esiste se non fumo, roccia, ghiaccio, fango, ceneri e acqua fetida. Se in rari momenti cessate di sentire odore di zolfo è perché avete cominciato a respirare gas…” Era proprio così anche a Noril’sk, solamente cinque anni fa. Dopo qualche ora ero intontito, scosso da una tosse incessante, avevo imparato a riconoscere le emissioni dal sapore, quando era rame era dolce, il nickel invece amaro e piccantino. L’ultimo incidente nel 2020, quando è collassata una cisterna del complesso industriale della Nornickel e 21 mila tonnellate di diesel hanno ammazzato l’intero sistema acquifero della regione.
Secondo Greenpeace comparabile solo al disastro della Exxon Valdez in Alaska nel 1989. Gl’incidenti si susseguono anche se non trovano spazio nei giornali russi e la causa è quasi sempre la stessa, il crollo delle infrastrutture che poggiano sul permafrost che si scioglie. Il cosiddetto Fattore P, che fa impazzire gli scienziati che si occupano delle conseguenze del cambiamento climatico nell’Artico: quel 20 per cento di territorio coperto dal permafrost che diventa poltiglia è tuttora impossibile prevedere quali effetti produca al clima già intossicato. E quando si tratta di regioni come quella di Noril’sk le incognite entrano in cortocircuito. Si tratta di una delle aree vitali per l’economia russa. Anzi, per il mondo intero. Mi dicevano sempre quelli del Nansen di Oslo, che l’inquinamento apocalittico di Noril’sk serve all’Occidente per inquinare meno, a combattere l’effetto serra. Così ha deciso il mercato, diceva Lars Rowe. Cioè per tamponare l’escalation climatica e contrastare il processo di scioglimento dell’Artico, uno degl’ingredienti più richiesti è infatti il nickel, elemento base (insieme al cobalto, derivato dal rame) delle batterie per le auto elettriche. Va da sé che la Nornickel, l’azienda monopolistica russa nella produzione di nickel, ma anche di palladio, platino e rame, è stata esentata dalle sanzioni occidentali contro la Russia. “Per combattere il riscaldamento globale e quindi lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost s’inquina l’Artico e si accelera lo scioglimento del permafrost che poi fa sprofondare le cisterne e gli oleodotti. Così l’economia green contribuisce a finanziare le guerre di Putin” diceva l’amico del Nansen Institute.
Le città che rinascono
Ma ho visto anche rinascere le città – città che sembravano spacciate. Indagare i segreti e le dinamiche anche psicologiche d’un riscatto è assai più interessante che raccontare certi successi, dovuti spesso a fattori anche casuali. Ero ad esempio andato a Pittsburgh, in Pennsylvania, che era stata la capitale mondiale dell’acciaio e che poi, con il tracollo dell’industria pesante, è diventata il simbolo della fine del mondo operaio, rottame metropolitano arrugginito per primo nella Rust Belt, prima ancora di Detroit. Ricordo l’impatto faccia-a-faccia con il downtown, all’improvviso, all’uscita di un tunnel sulla tangenziale: un’isola metropolitana nel mezzo di tre fiumi, molti grattacieli mantenevano l’impronta e il gusto della vecchia aristocrazia capitalistica, quelli nuovi rivelavano una città di carattere e niente affatto provinciale, il cielo blu metteva in risalto i pastelli del cemento e dei mattoni, era una piccola e graziosa Manhattan. “Qui non si vedeva niente, i lampioni erano accesi anche di giorno, il fumo offuscava tutto, i fiumi erano neri, e una volta l’acqua ha anche preso fuoco”, mi diceva Tony Buba, ex operaio negli altiforni, figlio di minatori e poi diventato leggendario regista di culto per i documentari girati nel suo quartiere proletario di Braddock. Le fabbriche hanno chiuso i cancelli, la città s’è fermata, la nebbia ha cominciato a diradarsi e pian piano è comparso il sole. “A quel punto la gente ha scoperto di vivere in una città meravigliosa e ha deciso che bisognava farla rinascere”, mi diceva Tony Bubba mentre cucinava un luccio pescato nell’Allegheny River.
Si chiama ancora The Steel city, anche la squadra di football resta quella degli Steelers, ma l’acciaio ormai non c’entra più con Pittsburgh, come la Ruhr col carbone. Ora è la città dei trentacinque college e università, delle tecnologie, della bioingegneria, hub ospedaliero dall’UPMC, conglomerato ospedaliero leader nei trapianti a livello mondiale e che dà lavoro a settantamila persone con un giro d’affari da sette miliardi di dollari l’anno. La chiamano “Roboburgh”, perché è la robotica il nuovo motore della città. Come è accaduto? Paradossalmente grazie alle storiche famiglie capitaliste. Di fronte al disastro urbano e sociale i Carnegie, i Frick, i Mellon, gli Heinz (quelli del ketchup) non sono scappati col bottino, ma, per riconoscenza verso la città che li ha resi paperoni, hanno investito in università, cultura, tre miliardi di dollari solo nella riconversione dell’edilizia industriale e nel recupero di ben ottantanove quartieri operai da consegnare agli studenti e alle giovani famiglie. “La città più vivibile d’America” ha titolato qualche anno fa l’Economist.
“A quel punto la gente ha scoperto di vivere in una città meravigliosa e ha deciso che bisognava farla rinascere”, mi diceva Tony Bubba mentre cucinava un luccio pescato nell’Allegheny River.
Scusi, ma quand’è che una città cessa d’essere tale? Quasi per provocazione l’avevo chiesto al guru delle smart cities, Carlo Ratti, riferimento internazionale per l’innovazione urbana, uno che progetta gli spazi urbani del futuro mescolando tecnologia, big data, cittadinanza attiva e Natura. “Le ragioni più ovvie sono il declino economico e demografico”, diceva Ratti. “Un altro caso e quando viene a mancare il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni, quando si disgrega quella che i romani chiamavano la civitas, la comunità dei cittadini, per distinguerla dall’urbs, la città costruita. Mi piace una frase che ho sentito da un funzionario pubblico ateniese: “non stiamo discutendo di hyperloop e droni o auto elettriche, se hai un tasso alto di disoccupazione bisogna discutere di lavoro”. Ecco come si spiega Pittsburgh. Ma anche il modello Vienna, più precisamente il quartiere Karmeliter, appena oltre il Danubio e il Graben. Nel cuore del secondo distretto, diventato in pochi anni una Williamsburg mitteleuropea. Era il vecchio ghetto ebraico. Prima dell’annessione nazista intorno a Karmeliter markt si contavano ancora 270 mila ebrei, dopo la Shoah circa duemila. Il quartiere divenne rifugio per profughi e sbandati di guerra, e per decenni destinazione naturale per immigrati turchi, fuggiaschi d’oltrecortina e infine scampati alle guerre civili balcaniche negli anni Novanta. Ero stato a raccontare la Little Bosnia al quartiere Karmeliter. Qui, nell’immaginario conservatore viennese, cominciava la terra barbara, l’Est, la steppa, la puzza di cipolla. Quindi è scattata la civitas. Governo e comune hanno deciso che era il posto giusto dove innescare un cambio di rotta, restaurando immobili e appartamenti da affittare a prezzi calmierati, promuovendo trasporti agevolati, zero burocrazia per l’apertura di negozi, atelier, gallerie d’arte e bistrot, biblioteche e musei dedicati alla storia del quartiere, recupero di ogni spazio verde possibile. Così, nel “villaggio-laboratorio”, diventato un caso di scuola perché sta alla base del successo di Vienna – città che non ha perso il suo humus e non si è conformata all’estetica global, diversamente da Milano ad esempio – sono arrivati non solo artisti, giovani professionisti, pionieri della creatività urbana, ma anche oltre ventimila ebrei, molti addirittura da Francia e Belgio.
Le città del futuro
Ho visto le città del futuro, cioè dove il futuro accade oggi, anzi è già accaduto. Dove un mondo sta crollando, tempesta dopo tempesta, ondata dopo ondata – come a Saint-Louis, Senegal. Per vedere il futuro basta attraversare un ponte di un centinaio di metri dal centro e andare a Langue de Barbarie, una stretta lingua di sabbia, una penisola che s’estende dal confine della Mauritania a nord per circa trenta chilometri parallelamente alla terra ferma, tra l’oceano e il delta del fiume Senegal. La Langue è collegata a Saint-Louis da due ponti al vecchio centro coloniale della città che fu la prima capitale dell’Africa occidentale sotto il dominio francese. Dal Duemila il borgo coloniale di Saint-Louis, l’antico centro della tratta degli schiavi e della gomma arabica, è diventato patrimonio Unesco. La sua natura anfibia e una certa patina délabré hanno assegnato a Saint-Louis l’appellativo di “Venezia d’Africa”. Un gemellaggio che sta assumendo toni sempre meno romantici, perché quel che accade alla striscia di sabbia oltre il ponte potrebbe accadere prestissimo all’intera città e ai suoi 130 mila abitanti. Perché l’Atlantico sfonda la costa come un ariete, ne porta via 8 metri l’anno. Le onde sono rostri che sventrano le abitazioni, e generano un mare di rifugiati climatici, finora già 18 mila, il numero più alto al mondo. L’oceano si sta portando via la Langue con tutte le sue radici; per gli 80 mila abitanti l’unico futuro possibile è una vita altrove, da sradicati. Questo è il fronte più caldo del cambiamento climatico, per l’Onu è il “luogo più vulnerabile del Pianeta”, per la Banca Mondiale è “la città-benchmark per quel che accadrà in molte aree costiere”. È l’alfa delle catastrofi prossime venture lungo i litorali del mondo. E non solo perché è dove gli effetti dell’innalzamento dei mari sono qui maggiormente visibili, testimoniati da un paesaggio di rovine che ricorda certe città terremotate o bombardate, con migliaia d’edifici, scuole, moschee di cui rimangono solo avanzi spettrali ammassati sul litorale, ma perché questa lingua di sabbia è la più densamente popolata al mondo, una sorta di Manhattan africana di pescatori.
Nel marzo 2018 Mama Maïsa Dieye non fece in tempo a raccogliere le vecchie fotografie di famiglia e nemmeno il suo unico vestito buono. Quando arrivò l’onda quella notte Mama Maïsa ebbe pochi secondi per decidere. Caricò il nipote piú piccolo sulle spalle e riuscí a strapparne altri due alle grinfie dei flutti. Le veniva un groppo in gola a pensare alle cinque capre che rimasero legate all’uscio principale, quello che affacciava sull’oceano: “Vidi i loro occhi disperati, poi sparirono insieme alla casa” mi diceva. Come sua madre e la madre di sua madre e come fanno da secoli tutte le donne della Langue, Mama Maïsa, quarantanove anni e undici figli, si occupa del pesce quando gli uomini rientrano dall’Atlantico, lo preleva dalle piroghe scivolando in mare fino alla cintola e lo porta a riva reggendo in capo un grande mastello.
La nuova Langue a Djougop
Un giorno sono stato a Djougop, a 12 chilometri da Saint-Louis, in piena savana. È qui dove si sta costruendo la “nuova Langue”. Ho incontrato Insa Fall, venticinque anni, l’ingegnere che è il referente locale del piano d’intervento statale, affidato a un’apposita agenzia per l’emergenza climatica: “Procediamo con la costruzione delle infrastrutture e quindi delle prime cinquemila abitazioni”, mi diceva, “e contemporaneamente affrontiamo gli aspetti sociali, queste persone devono iniziare una nuova vita lontano dall’oceano. È un progetto pilota, facciamo da cavie”. Alle famiglie dei rifugiati è stata offerta la scelta di farsi pagare il valore stimato delle loro case alla Langue de Barbarie e rifarsi una vita dove vorranno, oppure di ricevere un’abitazione adeguata al nucleo famigliare nella new town. A circa quattromila rifugiati sono già state assegnate unità abitative che ricordano un campo militare o minerario. Il villaggio è l’embrione della futura città che sta per nascere oltre il recinto, dove i caterpillar scavano strade e fognature. Michelle Gueye, cinquant’anni, guida il comitato dei residenti, si occupa della “riconversione sociale”, cioè è incaricata dei corsi per insegnare alle donne a cucire, diventare parrucchiere e a coltivare orti, cioè a passare dalle spigole al mango. Michelle è tra quelli che si sono rassegnati alla nuova esistenza nei prefabbricati: “Mi manca tutto della Langue, gli odori, addormentarmi con il rumore delle onde. La Langue è una dipendenza. Guarda, vedi come si sta seccando la mia pelle qui al campo? Sto diventando un’altra persona anche fisicamente”. C’era una festa di matrimonio quella sera all’area Cinque tra i prefabbricati, le donne vestivano abiti tradizionali, ma era l’unico segno d’un evento che alla Langue sarebbe stato un’apoteosi di musica, balli e cibo. C’erano solo bambini, mancavano gli uomini perché gli autobus arrivano da Saint-Louis che è già buio. “Oggi queste donne sono rimaste qui al campo” diceva Michelle “altrimenti vanno quasi tutti alla Langue ogni mattina, gli uomini in mare e le donne a vendere o a salare il pesce, partono alle cinque del mattino e ritornano alle nove di sera. Il loro mondo è ancora là, anche se ci vogliono due ore di autobus per fare 12 chilometri. Senza l’oceano morirebbero”
Ero stato alla Langue per raccontare come ciò che accade lì è legato allo scioglimento dei ghiacci. L’Artico chiama, la Terra risponde. Ogni cubetto fuso in Groenlandia è un sasso che lapida la nostra civiltà, diventa polvere nel Sahel, genera profughi climatici, causa siccità che fa evaporare i fiumi, si trasforma in bombe d’acqua che uccidono e cambiano i connotati a paesaggi millenari. La Groenlandia chiama, gli oceani rispondono. Nativi inuit e wolof del Senegal condividono la stessa sciagura. Ciò che accade nell’Artico non rimane nell’Artico. L’Atlantico meridionale negli ultimi quattro anni è aumentato del 60 per cento in piú rispetto alle previsioni. Nell’Africa subsahariana sta andando in cortocircuito l’alternanza tra stagioni umide e secche: è calcolato che quasi 90 milioni di persone saranno costrette a migrare nei prossimi dieci anni. Se si scioglie la Groenlandia, dicono gli scienziati, i mari potrebbero innalzarsi fino a otto metri.
“L’Atlantico meridionale negli ultimi quattro anni è aumentato del 60 per cento in piú delle previsioni. Nell’Africa subsahariana sta andando in cortocircuito l’alternanza tra stagioni umide e secche: è calcolato che quasi 90 milioni di persone saranno costrette a migrare nei prossimi dieci anni. Se si scioglie la Groenlandia, dicono gli scienziati, i mari potrebbero innalzarsi fino a otto metri”
Era un racconto che partiva quindi da molto lontano. Da un’altra città, Narsaq, sud della Groenlandia. Più precisamente un villaggio, anche quello di pescatori. Pescatori che però s’apprestavano a diventare una comunità di minatori perché sulla montagna a ridosso del villaggio stava per iniziare lo sfruttamento del complesso di Kvanefjeld, uno dei più grandi bacini di terre rare e uranio del mondo, una delle ragioni per cui sulla Groenlandia si sono accesi i riflettori per trasformarla in un nuovo Congo. Gli inuit erano divisi, in molti vedevano nello sfruttamento delle enormi risorse dell’Isola un’opportunità di riscatto, dalla povertà e soprattutto dal dominio danese. L’uranio e le terre rare, così come il petrolio, il gas, i diamanti, lo zinco, l’oro e i rubini, il pesce come l’unica via per pagare il costo dell’indipendenza. In tanti però si opponevano. Avevo incontrato Niels nella sua casa all’imbocco della baia affollata di centinaia di iceberg che nei piani della corporation cino-australiana doveva diventare il porto per i bulk transartici da spedire in Cina carichi di materiale radioattivo. Niels mi aveva portato nell’orto dove, grazie al nuovo clima, coltivava patate, rabarbaro, broccoli e cavoli. Da lì si vedeva la montagna della miniera. “Voglio che i miei figli e i figli dei miei figli vivano qui per sempre; vivere qui è una felicità che non ha prezzo”, diceva. “Ma se aprono la miniera voglio che i miei figli se ne vadano. Io invece lotterò fino alla fine contro quelli che vogliono rubarci l’anima. La mia tomba sarà lì”. Mi aveva indicato un angolo dell’orto, quello proprio affacciato sulla baia, dove aveva già scavato una buca.
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