Oggi porta in giro l’arte del padre, ne ricorda i film, per «tenerne viva la memoria». Da piccola, però, preferiva che lui non andasse a prenderla a scuola. «Non mi vergognavo, ma ero timida».
Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo, insegna Cinema in due accademie, ha scritto sei libri, compreso l’ultimo successo (“Fantozzi dietro le quinte. Oltre la maschera. La vita vera di Paolo Villaggio“, Baldini e Castoldi, 2021) e gira l’Italia per raccontare il “suo” Fantozzi. Quel padre che nel grande schermo e in tv ha ideato una delle maschere immortali della comicità italiana, ma che a casa era uno come tutti. Perché in fondo persino Fantozzi è un po’ tutti noi.
Elisabetta sarà domenica 26 gennaio a Monopoli per la 25esima edizione del Sudestival, assisterà alla retrospettiva dedicata a Paolo Villaggio (con Luca Manfredi e Vincenzo Zampa), presenterà il proprio libro e dialogherà con il critico cinematografico Paolo Mereghetti. A Roma, poi, il 27 marzo sarà celebrato il cinquantesimo anniversario dell’uscita del primo film. «Faremo una grande festa, al cinema Barberini», dice.
Elisabetta Villaggio, lei oggi gira l’Italia per parlare di suo padre. Perché?
«Vorrei tenere viva la memoria. Al di là dei film e dei tormentoni, come “batti lei”, vorrei che lui restasse vivo nella memoria degli italiani. I bambini magari non sanno chi è Paolo Villaggio, ma sanno chi è Fantozzi. E questo a me fa molto piacere. Sarebbe stato contento anche lui».
Non le dispiace che i più giovani sanno chi sia Fantozzi ma non Villaggio?
«Ma no, perché lui ha creato questa maschera che rimane ancora oggi così attuale. Siamo tutti un po’ Fantozzi nella vita di tutti i giorni, vessati da chi ha più potere di noi, reagiamo in modo goffo. E questo alleggerisce spesso la vita di tutti i giorni».
Ma suo padre com’era a casa?
«Era completamente diverso. Era sicuramente una persona allegra, piena di vita, di energia. Mio padre era molto curioso, amava stare in compagnia. Non era un solitario, ma come tutti aveva i suoi momenti di down. Non solo di tristezza, a volte anche di nervosismo».
E poi era molto popolare.
«Ricordo che era assalito dai fan molto spesso. Una volta siamo andati in una pizzeria a Napoli e non siamo riusciti a cenare perché c’era troppa gente che voleva l’autografo. Era molto legato ai fan, sapeva che a loro doveva molto. Era così che poteva esprimersi. Anche perché mio padre era un animale da palcoscenico».
L’amicizia con De Andrè, una lunga frequentazione, due genovesi così diversi ma con un percorso quasi simile. Lo ricorda?
«I rispettivi genitori erano amici, loro avevano fatto delle vacanze insieme già da piccoli. Si sono ritrovati da grandi, erano simili: venivano da due famiglie borghesi che volevano che i figli facessero un certo tipo di percorso, per approdare a un lavoro “serio”. E invece loro volevano fare altro, e ci sono riusciti alla grande. Si ritrovavano, due outsider di quella Genova. Io ricordo Fabrizio da sempre, percepivo anche da piccola un’amicizia fraterna tra loro. Per me De Andrè è sempre stato uno di famiglia».
In un’intervista in tv ha detto che da piccola si vergognava se suo padre la accompagnava a scuola. Perché?
«Ero timida, più che altro. Non volevo tutte quelle attenzioni su di me. Non volevo che andasse a parlare con i maestri o con i professori, non volevo che mi accompagnasse a scuola, perché sennò tutti si avvicinavano a lui. Siamo arrivati a Roma e ogni giorno avevamo fotografi e paparazzi fuori casa. Ero piccola, ed ero timida, cercavo soltanto i miei spazi».
Oggi lei gira l’Italia, ma com’è la vita, dopo così tanti anni, della figlia di Paolo Villaggio?
«Mi chiede che lavoro faccio (sorride, ndr)?».
Non solo.
«Ho lavorato a lungo in tv, sempre dietro le quinte. Oggi insegno in due accademie di cinema e poi scrivo dei libri».
A lezione parla mai di suo padre?
«No, cerco di evitare (sorride, ndr). Proprio per quello che dicevo prima».
Ma il suo film preferito qual è?
«Sono tanti e diversi tra loro. I primi tre Fantozzi mi piacciono molto. E ancora: “Io speriamo che me la cavo”. E poi c’è un vecchio film, poco conosciuto, “Sistemo l’America e torno”, diretto da Nanni Loy. Era il 1974 e mio padre faceva un ruolo drammatico. In molti non lo ricordano, a me piace molto».
Paolo Villaggio ha un erede nel cinema di oggi?
«Non saprei. Questi personaggi sono abbastanza unici. Adesso per esempio a teatro c’è “Fantozzi – La tragedia”, diretto da Davide Livermore e interpretato da Gianni Fantoni. Ed è molto bello. Anche quello è ripreso dai libri. È un’opera senza scenografia, molto interessante».
La Puglia le piace? E a suo papà?
«Il mio compagno è di Bari, quindi ho imparato ad apprezzare la Puglia. Piaceva anche a mio padre. Amo il cibo di questa regione».
Anche la focaccia?
«Sì, però glielo dico spesso: la vera focaccia è quella genovese».
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