“La speranza non delude”, ma solo se è legata alla salvezza

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Dostoëvskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov, respinge l’idea che nel banchetto eterno del Cielo i malvagi possano sedere a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse accaduto. Platone, nel mito di Gorgia, affermava che, alla fine, le anime staranno nude davanti al giudice: non conta più ciò che erano, ma solo ciò che sono in verità. Tale presentimento del giusto giudizio di Dio, ricorda Benedetto XVI «in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano» (enciclica Spe Salvi 44). Perciò Gesù ammonisce, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Cfr. Lc 16,91-31), a non essere ricchi di presunzione e di beni, per non scavare una fossa invalicabile tra la terra e il Cielo, ma a lasciare una possibilità intermedia tra la nostra morte e la risurrezione finale, mediante la carità.

Mancando ancora la sentenza ultima del Giudice supremo, la speranza sta in piedi tutta. È un pensiero che l’antico giudaismo aveva, certo che o una punizione o una beatitudine provvisoria l’anima già la riceve dopo la morte, in modo da purificarsi e guarire per diventare matura ed entrare in comunione con Dio. È la dottrina del purgatorio, maturata nella Chiesa occidentale, alla quale mira la virtù della speranza, che perciò si chiama “teologale”, «per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo» (CCC 1817).

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Si tratta di una concezione molto diversa da quella espressa da Papa Francesco nell’introduzione all’autobiografia recentemente uscita (Spera. L’autobiografia, Feltrinelli 2025), dove afferma che «la speranza è soprattutto la virtù del movimento e il motore del cambiamento: è la tensione che unisce memoria e utopia per costruire davvero i sogni che ci aspettano».

La speranza teologale infatti è strettamente legata alla salvezza in questo mondo e per l’eternità: Spes non confundit, la speranza non delude (Rm 5,5), così ha senso il motto dell’Anno Santo e la remissione, mediante l’indulgenza, delle pene conseguite con i peccati.

Ne il mistero del portico della seconda virtù, Charles Peguy rappresenta la speranza come la sorella minore, tenuta per mano dalle due maggiori, la fede e la carità: ma in realtà è lei tenerle insieme. La fede che è il principio, secondo sant’Ignazio d’Antiochia, e la carità che è il fine, come farebbero a compiersi nell’eternità – “la carità non avrà mai fine” (1 Cor 13,8) – senza la speranza? La speranza è collegata alla salvezza che ha inizio in questo mondo dall’incontro con Gesù Cristo: egli è la speranza, canta la Sequenza pasquale: Surrexit Christus spes mea.

A questo punto «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Ebr 11,1): cosa significa per l’oggi, per il presente della nostra storia. La fede è speranza, perché in essa siamo stati salvati da Cristo (Cfr. Rm 8,24). «La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (Spe Salvi 1). Questo dà senso al “varcare la soglia della speranza” che è Cristo, come ha scritto san Giovanni Paolo II, simboleggiata nell’Anno Santo dalla Porta santa. Certo, speriamo la salute, la pace, il lavoro, la nascita di un figlio. Se l’uomo è tale per i suoi desideri, che lo connettono alle stelle (de-sidera), allora speranza e desiderio vanno insieme, insomma vogliamo che il significato del tutto si sveli, che appaia e si faccia incontrabile. Ecco la preghiera, che per sant’Agostino è esercizio del desiderio: “Rinviando (il suo dono) Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace (di accogliere Lui stesso)”. La preghiera si congiunge con la speranza.

Ma che significa «prova delle cose che non si vedono»? Tutto quello che speriamo non si vede. Vediamo il male, che dilaga e eternamente erode il cuore, con il dolore, la malvagità, il tradimento, la menzogna, la violenza, la malattia, la solitudine, la persecuzione, l’irrisione di tutto ciò che abbiamo di bello e caro in questo mondo. Questa realtà presente costituisce per noi “una prova” delle cose che ancora non si vedono. Questo vediamo. Dunque prova di quelle cose che non si vedono significa metterle alla prova, metterci alla prova. Non vediamo il bene, il bello, il vero. Non vediamo l’amore, ma chi ama, non vediamo l’energia, ma la luce. Sono la prova, il convincimento, ciò che ci vince, e ci muove a riconoscere Dio in tutte le cose.  Non le vediamo, ma ci sono. Al battesimo ci è donata la fede che è l’inizio della vita eterna, con cui giungiamo a conoscere Dio, non un qualsiasi dio, ma quel Dio che ci ha amati sino alla fine: Gesù Cristo, il Verbo fattosi carne per essere visto e toccato. Guardando a Cristo, Dio mi ascolta ancora: così spes non confundit, la speranza non delude e la impariamo con le preghiere e i riti della liturgia. Ed anche dall’operare e dal soffrire apprendiamo la speranza: specialmente la capacità di soffrire per amore della verità, dipende dalla speranza che abbiamo dentro di noi.


La prospettiva del Giudizio di Cristo alla fine della nostra vita e alla fine del mondo, è luogo supremo di esercizio e apprendimento della speranza; poiché l’ingiustizia della storia, non può essere l’ultima parola, diventa necessario il ritorno di Cristo a giudicare i vivi e i morti. In quell’incontro, sta la salvezza. E Maria che va da Elisabetta verso la montagna, è l’immagine della Chiesa che, attraverso i monti della storia, porta nel suo seno la speranza del mondo, e ci rende «sempre pronti a render ragione della speranza che è in noi» (1 Pt 3,15-16).




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