Sundance,tra donne sull’orlo di una crisi di nervi e cenerentole horror

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Il direttore del Sundance, Eugene Hernandez, ha messo a tacere la domanda sulla bocca di tutti la sera prima dell’inizio del festival: cosa succederà, alla manifestazione di Redford, a partire dal 2027 e cioè quando scadrà il suo contratto con il municipio di Park City? «Non abbiamo ancora completato la ricerca. Stiamo esaminando tutti i dati necessari e in primavera, spero, saremo in grado di annunciare quale sarà la nostra nuova dimora», ha detto Hernandez. Tra le città americane prese in considerazione sono rimaste nella short list solo Boulder in Colorado, Cincinnati in Ohio e una combinazione di Park City e Sal Lake City. Risolto almeno temporaneamente l’enigma del futuro, il Sundance si è aperto più o meno come al solito. Mancano all’appello due sale temporanee (ma è rimasta l’option virtuale per la seconda settimana) e il quartiere generale si è spostato in un albergo diverso – segni anche questi dei tagli di bilancio iniziati due anni fa, con la riduzione delle sezioni e del numero dei film. Particolarmente pesanti quelli ai concorsi, oggi limitati a dieci titoli l’uno. Il Ceo che aveva avviato la campagna dei tagli, Joanna Vicente, non è più alle redini del Sundance Institute, che è attualmente impegnato nella ricerca di una nuova leadership. Con lei sembra sparita anche la sfarzosa cena di fundraising che si era materializzata negli ultimi due anni (Christopher Nolan era ospite d’onore, l’anno scorso)

L’irriverente dramma «If I Had a Leg I’d Kick You» di Mary Bronstein

IL CLIMA d’incertezza dietro alle quinte non ha impedito a filmmakers, addetti ai lavori e al pubblico da tutt’America di atterrare a Park City. E con loro i corporate sponsor che ormai da anni prendono possesso dell’intera Main Street per la durata del festival. Il tutto in un’impressione di isolamento alpino (oggi nevica anche) che un po’ attutisce l’urto della prima settimana al potere di Trump. Almeno fino a quando non si incappa in un documentario come The Librarians, dove il rogo dei libri e la resistenza di decine di intrepide bibliotecarie (la professione qui sembra praticata solo da donne) vengono descritti in dettaglio. Al che ci si ricorda in che pasticcio siamo veramente. Il cinema diretto da, e sulle, donne è stato uno dei fili rossi emersi dai primi due giorni di proiezioni.

APPLAUDITISSIMO, nella sala gremita della Library, If I Had a Leg I’d Kick You  di Mary Bronstein (sezione Premieres, sarà distribuito da A24) è una specie di A Woman Under the Influence (Una moglie, il film di John Cassavetes del 1974) riletto attraverso l’energia comico frenetica di Good Time (2017). Il riferimento ai fratelli Safdie non è casuale – Josh è qui nei credit di produttore insieme a Ronald Bronstein, marito della sceneggiatrice/regista e coautore di alcune delle sceneggiature dei fratelli. Il film è vissuto dal punto di vista di Linda (Rose Byrne), una psicologa di Montauk, che barcolla pericolosamente sul baratro di una crisi di nervi, alle prese com è con una figlia intubata perché non si nutre e che necessita costante attenzione, un marito capitano di crociera che è sempre via e un buco clamoroso nel soffitto di casa che nessuno aggiusta e in cui ogni tanto appaiono misteriose luci volanti.

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«The Ugly Stepsister» è una rilettura della fiaba dei fratelli Grimm diretta da Emily Blichfeldt, vista attraverso lo sguardo di una delle due sorellastre, Elvira

BYRNE, un’attrice che comunica grande empatia (il film inizia su un primo piano strettissimo dei suoi occhi) tenta di spegnere crisi dopo crisi aiutandosi con il vino cattivo dell’hotel in cui lei e la figlia sono costrette a stare, perché la casa è inagibile. «Non è colpa tua», le ripete ipnoticamente/inutilmente la dottoressa di sua figlia, nel gruppo/culto di supporto per madri in difficoltà come lei. E non l’aiuta nemmeno il collega psicologo che la segue (Conan O’Brien), freddo come un iceberg. Un film/ soggettiva, concatenato in una gimcana di incidenti, che si fanno poco a poco più famigliari (anche per chi non ha figli, il buco in casa on un criceto spiaccicato da una macchina); e da cui si esce esausti ma anche stranamente «capiti».

Una scena da «The Ugly Stepsister» di Emilie Blichfeldt

Breakdown femminile anche in The Ugly Stepsister, un body horror della norvegese Emilie Blichfeldt (sezione mezzanotte) che riprende la Cenerentola dei fratelli Grimm attraverso lo sguardo di una delle due sorellastre, Elvira (Les Myren), bruttina e con il sorriso metallizzato da un apparecchio antidiluviano, ma innamorata a distanza del principe Julian che intende sposare al ballo. Come in The Substance , il premio della bellezza arriva con un corollario di dolorosissime mortificazioni del corpo, incoraggiate dalla terribile madre quando salta fuori che il nobiluomo che ha sposato, per lasciarla vedova subito dopo, in realtà non aveva un soldo. Bionda, angelica e signorile, la figlia del nobiluomo (la futura Cenerentola) qui è quasi un personaggio periferico. Gli occhi blu pieni di speranza, all’ombra di un cono metallico che le protegge il naso dopo una chirurgia a base di scalpello, Elvira (la nostra eroina, almeno all’inizio) non si ferma di fronte a nulla, nemmeno a un verme solitario quando si tratta di fare scomparire la pancia. Belle le ricostruzioni d’ambiente e i costumi, in un andamento pop -specialmente la colonna sonora- che fa pensare a Marie Antoinette di Sofia Coppola.



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