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Era una domenica quel 26 gennaio, come in questo 2025. Era la domenica in cui è morto, nello schianto dell’elicottero su cui si trovava, Kobe Bryant, insieme alla figlia Gianna e ad altre sette persone. Impossibile non ricordare quel momento come un momento di lutto collettivo per chi ama il basket e non solo. Kobe Bryant era personaggio che andava oltre il parquet. Lasciato il basket era riuscito a vincere un Oscar. Il suo volto era conosciuto e riconoscibile, con un sorriso che raramente mancava. Era ed è icona dello sport capace di diventare filosofia di vita. Jannik Sinner ha indossato scarpe che lo omaggiavano festeggiando il suo secondo Australian Open, tantissimi ne hanno ricordato sui social il quinto anniversario della morte.
Federico Buffa, lo storyteller dello sport italiano, dopo anni in cui ha scelto il silenzio sul mito che aveva visto di persona vincere i suoi primi tre campionati NBA, porta a teatro **OTTO INFINITO – Vita e morte di un Mamba, produzione Imarts con esordio il 3 febbraio a Reggio Emilia, **che già nel titolo e nella locandina ha tanto di Kobe: l’8 che è uno dei suoi numeri, il 24 che è l’altro numero di Bryant raccolto nel simbolo dell’infinito fatto dal serpente mamba, il viola e il giallo dei Los Angeles Lakers, la sua prima e unica squadra in Nba, 5 titoli in venti stagioni. «Lui ha giocato sempre e soltanto a Los Angeles, il che gli dà una dimensione veramente da star: è nettamente lo sportivo più popolare di questa città ancora adesso. In più lui è stato tutto e il contrario di tutto. Era un uomo complesso e divisivo, ma la morte, come spesso succede, tende a rendere tutto mistico, quasi perdona tante cose che in vita non vengono perdonate e recupera tutte le parti strepitose della vita».
La vita del santo
Qui nasce la prima domanda perché è evidente il rischio di fare l’agiografia di Kobe Bryant, la vita del santo. «In realtà in vita è stato tutto tranne che un santo: è stato un uomo coerente, questo sì, con una fase ossessiva che si potrebbe definire come minimo rilevante, ma potremmo andare molto oltre. Con un approccio esistenziale abbastanza unico. Michael Jordan è la sua ispirazione, ma è difficile dare una spiegazione al fatto che lui voglia comportarsi come Jordan che da bambino è andato a scuola in una classe ancora segregata negli anni 70, rifiutato dal padre, rifiutato dal suo primo allenatore. Ha dei motivi per avere del revanscismo che Kobe, cresciuto come il principe Siddharta, non ha. Kobe non ha vissuto la conflittualità afroamericana, allevato in Italia in un clima privo di violenza. Eredita però l’atteggiamento di Michael Jordan e si comporta come lui, con un desiderio di annientamento dell’avversario al limite del parossistico. A differenza di Jordan negli ultimi anni, cioè da ritirato nel periodo tra il 2016 e il 2020, si è ammansito tantissimo. Ha un atteggiamento molto positivo».
Kobe Bryat e Paulo Coehlo
Federico Buffa lo riassume in un aneddoto ricordando come Kobe Bryant vivesse di curiosità e azione. «Lui è un soggetto che se ritiene che qualcuno possa essere interessante lo chiama. Cerca il numero ed essendo Kobe Bryant lo trova. Chiama e gli altri sono contenti di sentirlo al telefono. Chiama Paulo Coelho, visto che L’alchimista è il libro più letto dai giocatori della NBA, e gli chiede di scrivere con lui a quattro mani un libro sui giovani e lo sport. Coelho ha dichiarato che la notte di quella domenica, alla notizia dell’incidente, ha cancellato per sempre il file che aveva cominciato a scrivere».
Il lutto collettivo
La reazione dello scrittore è sintesi altissima di quel lutto collettivo che è stata la morte improvvisa di Kobe, che ha lasciato tutti sospesi, in un momento senza fiato, come non fosse cosa possibile. «Nel nostro caso anche più di un minuto perché era il nostro lavoro, è stato protagonista della nostra vita». Federico Buffa parla anche per chi scrive con lui lo spettacolo e racconta una vicinanza che è lavorativa, ma ha tanto di personale, anzi di passionale, e ha una grande dose di studio e approfondimento già prima di questo testo per il teatro.
Il sorriso
«Kobe pubblico diverso da quello privato? Lui dice di sì, diceva che come tutti gli esseri umani aveva alti e bassi. Poi però c’è gente che mi ha detto che potevi passare la sera prima con lui e il giorno dopo lui in ascensore se eravate insieme ti ignorava». L’immagine che viene alla mente è quella del suo sorriso soprattutto negli ultimi anni della sua carriera. «Soprattutto Kobe Bryant era bellissimo, aveva questo tratto incantevole che gli derivava dalla madre che è una donna stupenda. Quando sorrideva faceva impressione, aveva un bellissimo sorriso. Poteva essere crucciato e illuminato nello spazio di poco tempo perché aveva proprio questa andamento rapsodico della sua psiche».
Il giorno delle Torri Gemelle
Non semplice da raccontare in uno spettacolo teatrale per cui ha scritto tantissimo e tagliato tanto. «Sono 38 anni pieni di storia. Lui è un personaggio subito. Le sue sorelle dicono che a cinque anni ha annunciato che sarebbe stata una star NBA e che a tre anni lavorava sulla mano sinistra. Aveva un senso di predestinazione dentro impressionante». Sembrano finti questi aneddoti e invece sono tutti veri, come quello secondo cui al momento dell’attentato alle Torri Gemelle lui si stesse allenando e a Los Angeles erano le sei del mattino: è vero, la moglie lo riprende.
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