Ogni silenzio, oggi, grida il nome di chi non ha più voce. Ma ottant’anni dopo la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, sembra che molti europei abbiano dimenticato la tragedia dell’Olocausto. Lo sterminio del popolo ebraico per mano dei criminali nazisti e dei loro sodali fascisti è visto come un capitolo minore del Novecento, un incidente della storia privo di qualsiasi rilevanza o, peggio ancora, una messinscena orchestrata ad arte che ha lo scopo di introdurre subdolamente il “fardello della colpa” nell’immaginario comune. Questa deriva mistificatoria insulta le vittime della Shoah, umilia i loro discendenti e infligge una seconda, dolorosissima ferita a chi è sopravvissuto all’orrore dei lager. Il furore nichilistico, il revisionismo e l’odio per la verità stanno sdoganando l’idea che sia necessario censurare lo strumento con il quale sublimiamo la nostra essenza, il linguaggio.
Cancellare il ricordo è possibile, quando si altera il significato delle parole per creare pericolosi ribaltamenti semantici. Lo vediamo con la trasfigurazione che ha subìto il termine al centro del 27 gennaio. La memoria risponde all’esigenza di mantenere in vita i contenuti del passato per cristallizzarli nell’anima, per donarli alle future generazioni. È la memoria a definirci come individui e a forgiare la nostra identità. È la memoria che ci permette di distinguere il bene dal male. Spesso, però, i paladini della “tolleranza” oltraggiano la memoria tracciando dei parallelismi inesistenti tra il genocidio ebraico e la guerra contro il terrorismo che Israele ha intrapreso in risposta alla strage del 7 ottobre. Gli antisemiti del terzo millennio seguono un copione prevedibile: piangere in modo ipocrita gli ebrei morti durante il Giorno della Memoria, salvo poi gridare al linciaggio degli ebrei vivi.
Mentre scrivo queste righe, penso all’uso – e all’abuso – che viene fatto quotidianamente dell’aggettivo “sionista”. È incredibile come i nemici di Israele ne abbiano stravolto il senso, trasformando un messaggio di amore profondo per la propria terra d’origine in un sinonimo di violenza e sfruttamento. Come si può evincere dal titolo dell’articolo, desidero sfatare i falsi miti che compromettono l’immagine di questo movimento straordinario con la tesi usata da Benedetto Croce nel suo famoso saggio sulla religione cristiana. Al contrario di quanto si possa credere, scoprire cosa significhi davvero il sionismo è la precondizione per conoscere meglio noi stessi e, di conseguenza, per preservare la memoria.
Non possiamo non dirci sionisti perché gli ebrei sono stati e saranno per sempre i nostri fratelli maggiori. La presenza ebraica ci ha accompagnato per millenni e ha contribuito a plasmare i cardini della nostra cultura nel segno di un perfezionamento continuo. La civiltà giudaico-cristiana nasce dall’incontro di due matrici dottrinarie che hanno reso l’Occidente un faro di progresso, stimolando l’avanzamento morale e spirituale dell’umanità intera. Se la nostra filosofia affonda le sue radici nel rispetto imprescindibile per l’individuo, nella compassione per i vulnerabili, nella tolleranza e nel dialogo, lo dobbiamo grazie alla fede ebraica.
Non possiamo non dirci sionisti perché il ritorno al Colle di Sion simboleggia una fonte di riscatto dopo una serie incalcolabile di soprusi. L’Aliyah, cioè l’immigrazione degli ebrei dalla diaspora alla madre patria, è l’opposto di quella che i sostenitori dei palestinesi chiamano “oppressione coloniale”: il più grande fenomeno di decolonizzazione del secolo scorso. Milioni di mizrachi (“mediorientali”) espulsi forzatamente da Yemen, Siria, Iran, Iraq e Arabia Saudita a partire dagli anni Cinquanta hanno trovato nella loro casa ancestrale, Israele, un luogo dove condurre un’esistenza serena e fruttuosa insieme alle loro famiglie.
Non possiamo non dirci sionisti perché Israele ha trasformato il deserto in distese verdeggianti che si estendono a perdita d’occhio. Ha fatto sorgere dal nulla una perla architettonica come Tel Aviv, la principale metropoli affacciata sul Mediterraneo orientale. Ha dato impulso alla tecnologia, è la regina indiscussa della ricerca scientifica e della medicina, può vantare un’economia di mercato che si distingue per il suo spirito imprenditoriale. La grande scrittrice di origini russo-ebraiche Ayn Rand affermava che Israele ha portato l’industria, l’ingegno e il talento in mezzo alla stagnazione e ha suscitato, per questo motivo, il risentimento delle popolazioni arabe limitrofe.
Infine, non possiamo non dirci sionisti perché Israele incarna ciò che l’Europa era e che ha smesso di essere. Lo Stato ebraico rappresenta un’oasi di pluralismo e democrazia che promuove le libertà civili di tutti i suoi abitanti. È l’unico Paese sviluppato in cui il tasso di fertilità supera la soglia dei 2,1 figli per donna, sotto alla quale si verifica il declino del corpo demografico. Gli ebrei amano la vita più di ogni altra cosa, anelano alla felicità e hanno a cuore la salvaguardia della proprietà privata. La resilienza con cui hanno affrontato le vicissitudini storiche, l’orgoglio e la volontà di lasciare ai posteri un mondo migliore li rendono un modello a cui aspirare. Proviamo a manifestare la nostra vicinanza ai fratelli ebrei tutti i giorni: solo così potremmo ritenerci i custodi della memoria.
Aggiornato il 27 gennaio 2025 alle ore 15:17
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