Siria, tra gli sfollati e i profughi curdi in fuga dal governatorato di Aleppo che hanno perso tutto

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RAQQA (Siria settentrionale) – La campanella nella scuola elementare Ebi Elela Al Meari non suona più. A una delle porte del campo da calcio è appeso il filo col bucato steso ad asciugare, le classi all’interno – biblioteca compresa – sono state trasformate in mini appartamenti e i bambini che corrono tra i corridoi non sono allievi, ma figli di famiglie sfollate.

Migliaia e migliaia di sfollati. Siamo a Raqqa, nella Siria settentrionale controllata dai curdi. La città, cuore della guerra civile poi divenuta anche per circa due anni la capitale dello Stato islamico (Isis), da fine 2024 affronta un’altra crisi: quella delle migliaia di sfollati in fuga dal governatorato di Aleppo verso il Rojava, la regione guidata dall’amministrazione autonoma del Nord-Est (Daaes) a maggioranza curda. Così, sebbene l’8 dicembre una coalizione di gruppi armati abbia posto fine al cinquantennale governo della famiglia Al-Assad, facendo scoppiare manifestazioni di gioia in tutto il Paese, qui uno dei movimenti armati parte della coalizione – l’Esercito nazionale siriano (Sna), sostenuto dalla Turchia – ha avviato combattimenti contro le Forze democratiche siriane (Sdf), a guida curda, che hanno interessato Manbij, Shahba e Tell Ryfaat.

Gli arresti arbitrati e i saccheggi. Tra i profughi, oltre 100mila secondo i dati diffusi dalla Mezzaluna rossa, la stragrande maggioranza sono curdi siriani ma figurano anche arabi siriani, come conferma Human Rights Watch con varie Ong siriane, denunciando inoltre arresti arbitrari e saccheggi. Ma nel periplo del conflitto siriano che prosegue dal 2011 e sembra non volersi arrestare nel Nord, non si tratta di una novità: “Ci hanno costretto a fuggire due volte” racconta Yasan, 27 anni, il portavoce delle 160 persone che da dicembre risiedono nel complesso scolastico Al Meari, tra cui una cinquantina sono bambini.

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“Abbiamo perso tutto: la casa, il lavoro, i sogni”. “La prima volta – continua Yasan – nel 2018”, quando la Turchia lanciò l’operazione ‘Ramo d’ulivo‘ che portò all’occupazione di questa città, e non solo. “C’è perfino chi è finito a dormire per strada, ad Aleppo. Abbiamo perso tutto: la casa, il lavoro, i nostri sogni. Ci hanno accolto a Shahba”, continua il giovane, “e qui abbiamo ricostruito le nostre vite. Poi, due mesi fa, un nuovo attacco e stavolta siamo scappati a Raqqa. Non torneremo finché anche la comunità internazionale non ci garantirà che la situazione è sicura”.

“Tutto è cambiato in una notte”. A parlare ora è Evin, altra portavoce del gruppo, che condivide l’aula scolastica divenuta un appartamento, che divide con altre sei persone: il marito, la suocera e quattro bambini piccoli. “Dopo sette anni passati a ricostruirci una vita, siamo di nuovo dovuti fuggire lasciando indietro tutto. È perché siamo curdi – dice ancora la donna – non vogliono che abbiamo una terra, dei diritti, insomma che esistiamo”.

Proprio oggi, 10 anni fa, la liberazione di Kobane. L’amministrazione del Rojava punta il dito contro la Turchia, l’SNA ma anche le cellule dell’Isis, che da queste parti stanno rialzando la testa, proprio mentre oggi cade il decennale dalla liberazione della città di Kobane dai vessilli neri del Califfato, quel 26 gennaio 2015. “I miliziani ci hanno rubato ogni cosa e distrutto il resto, poi hanno minacciato di stuprare le donne”, denuncia ancora Evin, che aggiunge: “Fortunatamente l’Amministrazione autonoma del Mord-Est ci ha sempre aiutato, dandoci nel 2018 risorse per avviare attività commerciali e alloggi, e lo stesso ha fatto stavolta”.

Per i bambini, rifugiati e residenti, non c’è la scuola. I profughi del nord della Siria, caso più unico che raro, possono infatti contare sull’Amministrazione del Rojava a maggioranza curda, che nel corso della guerra civile si sono ritagliati una certa autonomia rispetto al governo di Damasco. Ciò tuttavia recentemente ha comportato che solo a Raqqa circa il 45% degli istituti scolastici venisse convertito in ricoveri per sfollati. Così, non vanno più a scuola né i piccoli profughi né i bambini un tempo iscritti in queste scuole.

Materassi, tappeti, e odore di prezzemolo al posto dei banchi. Mohammad, un uomo sulla quarantina, ci invita a visitare la stanza in cui vive con la sua famiglia di cinque persone: banchi e sedie hanno lasciato il posto a tappeti, materassi e un tavolo che funge da cucina, coi piatti ancora sporchi del pranzo e un tagliere dove qualcuno ha sminuzzato finemente il prezzemolo, tra gli ingredienti principali da queste parti. Ogni classe riconvertita in appartamento, una per famiglia, ha una stufa al suo interno per scaldarsi in questi mesi di freddo. E se qualcuno sta poco bene, è previsto un servizio di ambulanza.

“Vogliamo tornare a casa”. Tutto questo però, certamente, non può bastare: “Vogliamo tornare a casa, ad Afrin- dichiarano in coro- ma parenti e amici rimasti dicono che la vita è impossibile, non gli permettono di muoversi o lavorare”. Anche Layla, un’anziana signora, ci dice che sogna soltanto di tornare, ma per altri motivi: “I miei due figli sono morti nel 2018 nei bombardamenti turchi. Voglio solo sapere dove sono stati sepolti”.



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