Cerimonia davvero coinvolgente e bella, questa mattina, 27 gennaio, anche perché essenziale ed autentica, nella sua semplicità.
Cerimonia che ha permesso – sia consentito di dirlo prima di entrare in argomento, senza nessun paternalismo – di apprezzare il contributo di giovani di talento a questo momento alto che esige la revisione persino dell’insegnamento di Eugenio Montale: il più alto ufficio della memoria è dimenticare.
No.
Non sempre almeno.
Non si deve dimenticare, perché non ha futuro chi non sa fare memoria della propria storia: si resta soltanto carichi di passato.
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Una delle più gravi insidie, forse la più grande nel mondo di oggi, un motivo pericoloso di “inciampo” è proprio l’assuefazione, la nostra incapacità di “scandalizzarci” ancora.
Se pensiamo alla radice etimologica della parola “scandalo”, appunto “inciampo”, appare ancor più chiara la ragione che può avere sospinto, già da qualche tempo, l’iniziativa della Presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Prof. Rossella Bottini Treves, alla ricerca di un modo per comunicare, che recasse con sé tutta l’eloquenza di un alto valore simbolico, ma – è il caso di dirlo – stando con i “piedi per terra”: perché stia ogni giorno lì, sulla nostra strada, sulle strade della nostra vita, dei percorsi delle comunità, ad interpellarci.
Pietre d’inciampo, lungo le nostre strade, strade che i nostri passi percorrono ogni giorno.
Ci parlano senza provocazioni, ma anche senza sconti: io sono la pietra che divide la vicenda umana tra un “prima” e un “dopo”.
Prima e dopo la shoah, prima e dopo i campi di sterminio, prima e dopo l’olocausto di vite innocenti, prima e dopo l’abisso che mai sarebbe stato possibile senza il consenso, la complicità dei popoli.
Delle maggioranze.
Del conformismo, della ragion di Stato.
Della stessa “Scienza” che certificava la diversità ed inferiorità della razza ebraica, legittimando, poi, ulteriori e coevi orrori come “Lebensborn”.
Così, le tre pietre “d’inciampo” dedicate alla famiglia Jona (Regina, Enrichetta e Felice), poste a pochi passi dalla Sinagoga di Via Foa (di fronte al Civico 58) e quella, invece, alla memoria dell’Ing. Giuseppe Emanuele Leblis (tra pochi giorni, il 6 febbraio, l’anniversario del suo assassinio, nel 1944), siano ancora oggi motivo per noi di “scandalo”, semmai pensassimo che le tragedie di altri uomini e donne non ci riguardassero, se ci illudessimo di eluderne le responsabilità, se cercassimo di non ascoltare l’esigente richiamo per un nostro, non importa se piccolo, contributo al contrasto di ogni sopraffazione, umiliazione e violenza, di ogni riduzione di qualsiasi uomo e donna ad una condizione meno umana.
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Oggi 27 gennaio, dunque, alla Sinagoga di Via Foa a Vercelli, un momento semplice ed alto, di cui sono stati protagonisti ragazzi che giustificano una speranza per il futuro.
E’ bastato che si levassero le struggenti note del tema di Schindler’s list, il capolavoro di John Williams per dire che a Vercelli c’è un Liceo Musicale davvero di ottimo livello, frequentato (non è la prima volta che li ascoltiamo: restammo stupiti, tempo fa, di una esecuzione fantastica del celebre preludio per violino di Pugnani-Kreisler) e di nuovo le parole di due ragazzi allievi del Liceo Lagrangia hanno scandito i nomi degli ebrei deportati nei campi di sterminio nazisti.
Emozioni che la nostra gallery, volentieri messa a repertorio anche come modesto segno della partecipazione di VercelliOggi.it alla memoria della Comunità ebraica e di tutta la società civile, ripropone, nella speranza che l’espressione di questi sentimenti accompagni i giorni futuri.
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La gallery riprende, altresì, l’antico “Aron Ha Kodesh”, recentemente restaurato ed ora riportato alla sua originaria bellezza e, almeno in parte, alla sua funzione liturgica: vi è dipinta una scritta che riprende testi sapienziali recuperati da Rav. Elia Richetti, scomparso più di un anno fa.
L’Aron è il luogo sacro in cui è contenuto il rotolo della Torah, con il testo ebraico dei primi cinque Libri della Bibbia.
La giornata di oggi, dal punto di vista storico, si è naturalmente appuntata sui fatti del 27 gennaio 1945, quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz: siamo all’ottantesimo anniversario di quel giorno.
E l’orrore irruppe sulla scena del Mondo.
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Ma – dando, ancora una volta, un sincero riconoscimento ad altri giovani – ci pare bello pubblicare qui, a corredo di questo articolo, un video preparato nel 2020 dagli allievi dell’Istituto Ipsia “Bellini” di Novara.
I ragazzi presero l’iniziativa di intervistare l’Ing. Mario Misul, non soltanto esponente della Comunità ebraica di Torino e poi di Ivrea, ma soprattutto un testimone del suo tempo.
Testimone del periodo compreso tra il 1938, anno in cui furono approvate in Italia le Leggi razziali, prodromiche ai fatti del 1943 – 1945, quando entrò nella sua fase più feroce la persecuzione degli ebrei.
Mario Misul racconta ciò che rimase impresso nella memoria di un bambino al quale piovve addosso, quasi da un giorno all’altro, un cambio di “sistema”.
Un documento che ci pare unico, che merita una riflessione attenta.
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Un plauso ai ragazzi dell’Istituto Ipsia Bellini e, naturalmente, anche i loro Insegnanti, sicuramente capaci di stimolare intelligenza e accuratezza della ricerca storica.
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A conclusione di queste note, di seguito riportiamo il testo dell’intervento di saluto portato oggi in Sinagoga dal Sindaco di Vercelli, Roberto Scheda, intervenuto insieme al Prefetto di Vercelli, Lucio Parente ed al Presidente della Provincia, Davide Gilardino.
«Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile»
Così in Se questo è un uomo, Primo Levi sottolineava la difficoltà di esprimere con il linguaggio della nostra vita quotidiana l’esperienza atroce della deportazione nazista e dello sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Per tutta la vita, lo scrittore torinese ha poi continuato a cercare quelle parole per raccontare la sua esperienza soprattutto ai più giovani, con l’ostinazione del testimone infaticabile e il suo grande talento. Oggi, a distanza di 80 anni esatti da quando, quel 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberò Auschwitz, tocca a noi rilevare quell’impegno; tocca a noi tornare alle parole di Levi, ripeterle, tradurle in tutte le lingue del mondo, farle apprezzare e discuterle con chi ancora non le conosce o, peggio ancora, le sta dimenticando e distorcendo.
Serve la memoria?
Certo che serve: Auchwitz – per dirla sempre come Primo Levi – «è fuori di noi ma attorno a noi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia». Ancora oggi. Ben vengano dunque le iniziative come quella odierna perché ci spingono a farci domande. Per impedire che di quello sterminio, una volta venuti meno i sopravvissuti, rimanga solo una riga sui libri di Storia e poi, lentamente, non ci sia più neppure quella. Voglio dunque citare l’articolo 3 della nostra Costituzione, il faro che illumina la rotta nei momenti più bui: «Uguaglianza di tutti i cittadini ed è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli che limitano di fatto quell’eguaglianza e libertà».
Perché, purtroppo, dopo Auschwitz altri stermini ci sono stati nel corso della Storia e anche nella nostra Europa. A Sebrenjca ad esempio, nella ex Yugoslavia: 30 anni fa, l’esercito della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina massacrava 8.000 ragazzi e uomini musulmani bosniaci.
Per questo e tanti altri motivi, «tenere viva la memoria di quel terribile crimine che fu la Shoah è importante per costruire un mondo migliore, un mondo che respinga per sempre la discriminazione, le torture e ogni forma di schiavitù. Un mondo in cui, fin da piccoli, bambine e bambini imparino a vedere in ogni persona innanzitutto l’essere umano, portatore di una dignità innata e titolare dei diritti universali. Un mondo in cui sempre più persone abbiano la lucidità di riconoscere e il coraggio di contrastare, fin dai primi sintomi, le violazioni dei diritti e la negazione dell’umanità altrui».
Vi invito, quindi, a esser in grado di erigervi a scudo dell’umanità e del diritto ad essere umani in tutte le sue meravigliose sfumature, con il coraggio di opporsi e contrastare con feroce giustizia ogni sopruso e negazione alla ricerca dell’altrui diritto all’umanità.
Vedete, in questi giorni l’illustre cittadina onoraria di Vercelli – Liliana Segre – è oggetto del più bieco e codardo odio: quello che serpeggia nei social network, il cancro comunicativo, sociale e culturale della nostra società. È uscito in tutt’Italia un film su di lei che si intitola “Liliana”, un film che questa sera andrò a vedere. Gli ignoranti – perché ignorano i fatti e la Storia – si accaniscono contro Segre perché rea di avere le stesse origini di Netanyahu, fra i principali autori di quanto assistiamo, purtroppo da mesi, nella striscia di Gaza. Così ricoprono Segre di insulti e minacce, al punto che l’allora ragazzina che riuscì a uscire viva da Auschwitz, ha annunciato la dolorosissima intenzione di non partecipare ad un importante evento sulla Shoah a Milano.
Badate bene quando cito Primo Levi: «La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia». Evitate, evitiamo che dilaghi. Aiutateci, specie fra le nuove generazioni, a tenere in vita il ricordo di quanto successo nei campi di sterminio perché non si verifichi mai più.
Diamo un segnale forte, concreto di vicinanza a Liliana Segre. Facciamolo da una città che, a pochi chilometri da dove ci troviamo noi oggi, ha purtroppo visto con gli occhi e toccato con mano l’orrore di quello sterminio. Dopo l’istituzione della Repubblica sociale italiana, la prima assemblea del Partito fascista repubblicano, il 14 novembre 1943, approvò un manifesto programmatico che stabiliva che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Pochi giorni dopo, il 30 novembre, il ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi diramò ai capi delle province una circolare, nota come «Ordine di polizia n. 5», nella quale veniva disposto il temporaneo internamento degli individui di “razza ebraica” nei campi di concentramento locali, in attesa del loro trasferimento in “campi di concentramento speciali appositamente attrezzati”. In provincia di Vercelli, si decise di allestire il campo alla cascina dell’Aravecchia, di proprietà del Comune, e di porlo sotto la direzione di Giulio Panvini Rosati, ufficiale di Pubblica sicurezza. Il memoriale redatto da quest’ultimo documenta che all’Aravecchia furono provvisoriamente raccolti 15 ebrei, per la maggior parte stranieri. Quando la cascina divenne sede di alcuni reparti militari, gli ebrei furono trasferiti alla casa di riposo “Vittorio Emanuele III”, da dove furono prelevati e inviati per la maggior parte al campo di raccolta di Fossoli, in provincia di Modena, e da qui destinati ad Auschwitz.
A distanza di 80 anni dalla liberazione da parte dell’Armata Rossa, voglio infine ricordarvi, perché vi siano di monito le parole di un grande scrittore portoghese: «Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere».
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