La terza missione è la strada per impedire che l’università muoia

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Le attività degli atenei come i programmi didattici nelle carceri e in generale tutte quelle di impegno per la società, di contributo alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, di fertilizzazione delle imprese, di divulgazione, di formazione continua, sono preziose ed essenziali

«I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». L’affermazione è tratta dall’articolo 34 della Costituzione, quello che sancisce il diritto allo studio. È quella che rende concreto l’incipit dell’articolo: «La scuola è aperta a tutti».

La Repubblica apre le porte della scuola a tutte le persone e si adopera perché abbiano la possibilità di rimanerci dentro, anche se sono prive di mezzi. Tipicamente vien da pensare a mezzi materiali, soldi: gli studi, soprattutto quelli superiori, costano e possono essere escludenti. Ma come si fa se il “mezzo” che manca è la libertà, perché la persona è detenuta in carcere?

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Terza missione

Varie università italiane si adoperano, con programmi didattici svolti negli istituti di pena, affinché il diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi sia garantito anche alle persone recluse. È peraltro uno dei modi per rendere efficace l’articolo 27 della Costituzione, che afferma «le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato». Esempi di attività che nel gergo universitario vengono definite di terza missione, ovvero quella dedicata a iniziative che aprano gli atenei alla società mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze.

Terza missione perché si accompagna alle prime due, la ricerca e la didattica. Ma terza anche in senso cronologico, dato che solo in tempi relativamente recenti si è capita l’importanza della generatività, ovvero di quanto valore aggiunga alla conoscenza il fatto di condividerla, di renderla a tutti gli effetti strumento di democrazia.

L’abbinamento prezioso tra ricerca e didattica è ciò che rende unica l’esperienza universitaria: scoperte di punta che diventano patrimonio di studio e quindi occasioni per ulteriore sviluppo di conoscenza. Un caso fra tutti, dato che quest’anno ne ricorre il centesimo anniversario, quello della meccanica quantistica: una rivoluzione che nasce all’interno delle università nella temperie culturale dell’inizio del diciannovesimo secolo e subito diventa materia di studio e quindi di molteplici applicazioni.

Altrettanto cruciale è la condivisione del sapere con il mondo che circonda aule, biblioteche e laboratori, che magari vede l’università come un luogo elitario e non come quell’«organo “costituzionale”» che Pietro Calamandrei auspicava fosse – in un suo storico discorso del 1950 – uno di «quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto».

Non solo divulgazione

La terza missione, intesa nella sua accezione più generale di impegno per la società, di contributo alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, di fertilizzazione delle imprese, di divulgazione, di formazione continua, è per me preziosa ed essenziale. Per esempio, spesso si pensa all’università come luogo per ventenni, ma in un mondo del lavoro in continua trasformazione gli atenei possono diventare sedi dove ci si reinventa anche in età matura, antidoti alla disoccupazione. E, incidentalmente, possono ripopolare quelle aule che presto saranno meno frequentate a causa del calo demografico.

Due recenti articoli del linguista Claudio Marazzini e dell’italianista Claudio Giunta, pubblicati rispettivamente nella rivista Il Mulino e sul Post, sono critici nei confronti della terza missione. I due autori evidenziano oggettive fragilità del sistema universitario, sempre più schiacciato dalla burocrazia e con risorse insufficienti, un’abbinata frustrante per chi ci lavora e perniciosa per il paese.

Se ciò è condivisibile, in particolare la critica alla «burocrazia della valutazione», non mi ritrovo invece nell’opinione di Claudio Marazzini che descrive due prime missioni, la ricerca e la didattica, come «le uniche veramente importanti, anzi le uniche vere, non perché la disseminazione del sapere non conti, ma perché la fanno molti altri altrettanto bene, laddove il compito della ricerca è di per sé talmente rilevante, unico e necessario da non ammettere distrazioni e intoppi, pena la morte stessa dell’università, trasformata in un circo che si contende le piazze sfidando dilettanti e istituzioni magari più piccole, ma anche più libere e più snelle, dunque più agili».

A parte che la terza missione è ben più della sola divulgazione, pratica peraltro cruciale in un mondo dove spesso trionfano le post-verità a discapito dei fatti (e basta vedere l’importanza che danno all’outreach le principali università mondiali, che diventano punti di riferimento per la comunicazione della cultura), credo che l’università rischi di morire se rimane uguale a sé stessa, non tanto nei suoi inalienabili principi di libertà, universalità, autonomia, quanto nella modalità in cui li vive. Il mondo cambia e rifugiarsi in un passato per quanto glorioso serve a poco.

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È più utile, credo, accettare la sfida dell’ampliamento, chiedendo nel contempo più risorse e meno burocrazia. Prima c’erano due missioni, ora anche la terza, che va valorizzata ed è fondamentale per l’università. E non solo in ambito scientifico, ma in tutti i settori della conoscenza, nessuno escluso, dove vanno costruiti ponti e favorite le contaminazioni, antidoto a recinti e pregiudizi. Non “invece di”, ma “in più”. Anche con la terza missione l’università allarga i suoi orizzonti, senza paure.

Uscire dalle nostre zone di comodità, vuoi che siano le case, gli ambienti familiari, le abitudini lavorative e culturali, è complesso, costa fatica ed espone a errori. Ma, come dice il Galileo di Bertolt Brecht, le mani «meglio sporche che vuote». Proprio quel Galileo che rivoluziona la scienza e scardina più di un millennio di fisica aristotelica, ma allo stesso tempo, per dirla con Italo Calvino, «innalza la sua prosa a un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose».

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