Non sarà certo il taglio di norme che servirebbero a ridurre le emissioni, salvaguardare le foreste o ridurre i pesticidi nei campi a cambiare la vita agli agricoltori e fermare il trend che vede chiudere ogni anno piccole e medie aziende. La transizione ecologica è necessaria a tutti i livelli, dall’industria alla manifattura. E il mondo agricolo avrebbe tutto l’interesse a battersi per la sua vera realizzazione
Esattamente un anno fa le strade di mezza Europa si sono riempite di trattori. Prima in Germania, poi Romania, Francia e, infine, in Italia. Per giorni non si è parlato di altro. Abbiamo visto e raccontato le fatiche degli agricoltori, le loro (giuste) richieste – a partire dal giusto prezzo del cibo e dalla equa remunerazione di chi produce – e, allo stesso tempo, abbiamo mostrato le (sbagliate) strumentalizzazioni con cui le lobby agricole europee e la destra conservatrice hanno usato le proteste per smantellare il green deal agricolo, quell’insieme di propositi racchiusi in un documento chiamato “Farm to fork”.
E l’hanno fatto con una certa metodicità: a partire dalla guerra in Ucraina in poi, infatti, hanno prima chiesto e ottenuto la deroga alla coltivazione di quel 4 per cento di terreni che, teoricamente, farebbe bene a stare a riposo per dare ossigeno al suolo e alimentare la biodiversità; hanno contrastato l’approvazione della Nature restoration Law, se la sono presa con l’approvazione del regolamento sulla deforestazione (EUDR), che infatti entrerà in vigore con un anno di ritardo; hanno osteggiato il regolamento pesticidi, hanno fatto in modo che le emissioni dei bovini stipati in enormi allevamenti intensivi non venissero equiparate a quelle industriali (come se è 1 kg di CO2 emessa da una vacca allevate in quelle condizioni valesse meno di 1 kg di CO2 emessa da un’industria). E hanno avuto una certa dose di successo.
La fase due
A distanza di un anno, ci risiamo. Le proteste sono iniziate nuovamente e in diverse città italiane i trattori hanno lasciato i campi per dirigersi nuovamente sulle strade trafficate e raggiungere il centro delle città. «Stiamo per mobilitarci nuovamente – sottolineano gli agricoltori -. L’anno scorso furono presentati dieci punti al ministro Lollobrigida, dopo più tavoli il ministero non ha esaudito nessuna richiesta». Insomma, non è cambiato nulla, dicono.
Una prima domanda, quindi, vorrei farla: a distanza di un anno da quelle proteste, è servito a qualcosa puntare il dito contro le misure ambientali? A me pare di no e le proteste di queste ore sono lì a dimostrarlo. Essersi scagliati contro le misure ecologiche non ha cambiato in meglio la vita degli agricoltori che, infatti, scendono nuovamente in piazza.
I problemi degli agricoltori sono reali e vanno ascoltati con attenzione perché, è bene ricordarcelo, dal lavoro della terra dipende il cibo che arriva sulle nostre tavole. Hanno ragione quando dicono che i costi di produzione (a partire dal prezzo dell’energia) sono diventati insopportabili; fanno bene a denunciare di come una serie di materie prime siano trattate come delle commodity, dei beni indistinti (e quindi senza valore) il cui costo si determina alla borsa di Chicago; fanno bene a opporsi ai trattati di libero scambio come il Mercosur che, se approvati, rischierebbero di mettere ulteriormente in ginocchio l’agricoltura (e l’ambiente). Sono battaglie importanti su cui anche il mondo ambientalista è impegnato e che potrebbero diventare fronti comuni.
Ma non sarà certo il taglio di norme che servirebbero a ridurre le emissioni climalteranti, salvaguardare le foreste o ridurre i pesticidi nei nostri campi (e piatti) a cambiare la vita agli agricoltori o a fermare il trend che vede chiudere ogni anno le piccole e medie aziende perché non guadagnano abbastanza per campare.
La transizione ecologica è necessaria a tutti i livelli, dall’industria alla manifattura, passando inevitabilmente anche per il settore agricolo. È inevitabile, anche se doloroso. E il mondo agricolo avrebbe tutto l’interesse a battersi per una vera transizione visto che è il settore che è funestato quotidianamente da eventi meteorologici estremi che distruggono raccolti e aziende.
L’effetto Trump
E invece sta accadendo esattamente il contrario. Anche questa volta, nel mirino sono finite le politiche ambientali, orpelli da radical chic da abolire per fare spazio alle nuove parole d’ordine di questa nuova fase politica globale: semplificazione e competitività, per il settore agricolo ma non solo. Ne sentiremo parlare a lungo nei prossimi tempi.
Del resto, il ritorno di Trump, il suo glorificare i combustibili fossili, l’uscita dall’accordo di Parigi, spianano la strada anche in Europa alla competitività più sfrenata.
Ecco perché non mi stupisce quanto accaduto poco giorni fa, quando il Telegraaf – quotidiano olandese conservatore – ha lanciato una presunta inchiesta su un altrettanto presunto scandalo delle associazioni ambientaliste. L’articolo ha dato una notizia che tecnicamente non si può considerare tale. Ha sostenuto, cioè, che l’Ue ha «sovvenzionato segretamente gruppi ambientalisti per promuovere il Green deal dell’ex commissario Frans Timmermans» e rafforzare le politiche verdi e, continua l’articolo, «per orientare il dibattito sull’agricoltura».
Il presunto scandalo che scandalo non è, riguarderebbe in realtà progetti Life che vengono assegnati attraverso specifici bandi, e soggetti a regole stringenti (i fondi europei sono quanto di più rendicontato e trasparente esista). Ovviamente non si tratta né di fondi segreti né di regalie ma nell’era della post verità, questo articolo è stato sufficiente alla destra di governo e a un pezzo di mondo agricolo per sferrare un attacco, l’ennesimo, al mondo ambientalista e alle politiche ecologiche in discussione in Europa.
Se vogliamo capire le proteste dei trattori, dobbiamo leggerle in questo clima che si sta facendo sempre più soffocante, dove si farà fatica a distinguere le (giuste) rivendicazioni dalle (sbagliate) strumentalizzazioni. Anche perché ho paura che il vero obiettivo, il grande non detto di questa storia, sia il documento di visione sull’agricoltura che la Commissione europea è chiamata a presentare a metà febbraio. Dovrà, cioè, dire quale modello agricolo ha in testa. In una normale dialettica politica, sarebbe auspicabile poter mettere a confronto punti di vista diversi. Mi pare invece che siamo davanti a una fase in cui si preferisce vestire i panni del turbo-trumpismo e prendersela con la società civile e le associazioni ambientaliste. Staremo a vedere come deciderà di muoversi l’Europa.
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