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Giacomo Boni ci aveva anche provato a scavare archeologicamente Roma, con un pionieristico metodo stratigrafico. Metodo, che, ovviamente, necessitava di tempo. Bisognava fare rilievi puntuali, tenere presenti tutti i contesti storici, prima e dopo la Roma imperiale. Poi studiare, pubblicare, valutare cosa e come preservare di quelle fasi urbane così complesse, intrecciate, più volte riviste nel corso dei secoli. Ma la “velocità del piccone” e la sua retorica l’ebbero vinta su Boni e pochi altri propugnatori del contesto storico-archeologico, in quella lunga fase da quando Roma divenne capitale del nuovo Regno d’Italia a quando si trasformò nello sfondo dell’apparato celebrativo del regime fascista. La foto di Mussolini che, in divisa e fez d’ordinanza (sotto in una rielaborazione per la Domenica del Corriere), vibra la prima picconata su edifici da abbattere per fare spazio agli stradoni neo-imperiali, è senz’altro un simbolo dalla ennesima stagione delle sistemazioni urbane della Capitale. Sistemazioni la cui eredità è ben presente nel XXI secolo.
Isolare i monumenti romani dal contesto non-classico successivo
Questa trasformazione della città, una vera sciagura per la documentazione archeologica della stessa, oltre che per gran parte del suo tessuto urbanistico – e sociale – storicizzato da lunghi secoli, è stata indagata in una ricerca di Alessandro Sebastiani, pubblicata da Carocci: Roma antica e l’ideologia nazionale italiana – Trasformazioni di una città dal Risorgimento al fascismo.
Sebastiani, che è associate professor al dipartimento di studi classici dell’Università di Buffalo (USA), esplora come i resti monumentali classici della romanità furono “utilizzati”, è questo il termine corretto, per costruire la “nuova” identità nazionale dell’Italia appena unificata e, in seguito, nel suo tentativo di trovare un ruolo imperiale nel consesso delle “Grandi Nazioni” europee dell’epoca.
Questo processo si svolse essenzialmente in due direzioni: nell’isolare i monumenti significativi, di solito rigorosamente imperiali, dal contesto urbano delle epoche successive, e nella realizzazione di nuovi edifici-simbolo (soprattutto ministeri e tribunali) della nuova città. Ma non basta, a questi edifici venne accostata una nuova sistemazione urbanistica di ampie zone, con l’apertura di strade, piazze, autentiche quinte scenografiche per le esigenze del Regno sabaudo e del regime mussoliniano.
Il placemaking di Roma
Sebastiani racconta in particolare di quattro casi, quelli dell’Ara Pacis Augustae, del Colosseo, dei Fori Imperiali e del Mausoleo di Augusto. Se un cittadino romano del XIX secolo passeggiasse attorno a quei luoghi adesso, stenterebbe a riconoscerli. Le distruzioni e gli sventramenti per “valorizzarli”, la ricerca di un concetto del tutto astratto di “autenticità” (quale?) degli stessi portarono in realtà alla cancellazione delle loro identità storiche, nel nome di un passato romano fortemente idealizzato, diremmo quasi pastorizzato ad uso della visione di una romanitas immaginata e piegata agli slogan del momento. Si tratta, racconta diffusamente Sebastiani, del placemaking , ossia della creazione di luoghi dell identità. La pratica del placemaking, ci spiega, è “il processo di trasferimento dei valori astratti di identità appartenenti a una cultura o a un popolo nella concretezza di antichi monumenti o dell’architettura moderna”.
Il dialogo impossibile tra modernismo ideologico e testimonianze archeologiche
La costruzione dei palazzoni pubblici ottocenteschi avvenne essenzialmente nel centro cittadino. Il placemaking ideologico del fascismo fu invece più complesso. La sistemazione urbanistica dei Fori imperiali e l’apertura di via dell’Impero avrebbero dovuto essere completate da un progetto di Giuseppe Terragni, il Danteum, che non vide mai la luce nonostante fosse estremamente interessante e non certo “piacentiniano” come altri edifici coevi. Il palazzo del Littorio (la Farnesina), il Foro Italico e la stessa Eur, che rappresenta a causa della guerra la fine delle operazioni di placemaking mussoniniane, segnano di fatto l’abbandono del centro per quanto riguarda il posizionamento di questi progetti.
Attorno al Mausoleo di Augusto, roboanti di retorica, restano invece quegli edifici razionalisti che così male si raccordano con le testimonianze archeologiche di Roma. Gli architetti infatti, spiega Sebastiani, si trovarono a dover fronteggiare un problema insolubile in questi termini, il raccordo tra l’architettura modernista e quelle rovine ormai isolate e ideologizzate, con la perdita della tanto cercata “autenticità” che si cercava invece di ricostruire. I casi analizzati nel libro aiutano a cucire i pezzi di quella storia di formazione ideologica a colpi di piccone restituendone il contesto tra fine Ottocento e dopoguerra, rimettendo quei “luoghi neo-identitari” nel flusso della storia di Roma. Senza bisogno di cancel-culture, inutili damnatio memoriae e nuovi proclami.
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