Non si vuole più parlare della cancellazione del debito estero. Ma è un’urgenza globale

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I pagamenti del debito dei Paesi a basso reddito sono triplicati nell’ultimo decennio. Lo ha ricordato a fine 2024 la campagna Debt Justice elaborando i dati del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale. Non si raggiungeva un livello del genere dal 1994, e questo solco odioso tra ricchi con liquidità e poveri alla canna del gas si allargherà anche nel 2025, specie se il dollaro continuerà ad aumentare di valore sotto l’amministrazione imperiale di Donald Trump. Ecco perché papa Francesco, nel silenzio ipocrita del mondo, ha testualmente “esortato la comunità internazionale a lavorare per la cancellazione del debito estero, riconoscendo il debito ecologico esistente tra il Nord e il Sud del mondo”.

Il suo è stato “un appello alla solidarietà” ma “soprattutto alla giustizia”. I Paesi ad alto reddito nel 2023 hanno guadagnato infatti più di 1,4 miliardi di dollari in rimborsi di prestiti dai maldestramente detti “Paesi in via di sviluppo” (fonte Banca Mondiale). Tra i governi con pagamenti del debito estero superiori al 20% delle entrate statali nel 2024 e 2025 ci sono Angola, Egitto, Kenya, Pakistan, Senegal e Tunisia. E tra le obbligazioni dei Paesi che rientrano nell’attuale schema di riduzione del debito del G20, ben il 90% è disciplinato (naturalmente) dal diritto inglese. Proprio da Londra il Guardian ha sintetizzato la cosa così: “I Paesi ricchi sono diventati di fatto i banchieri del mondo, spremendo i debitori del Sud globale”. Le valute forti sono perciò ambite e comprate dagli Stati indebitati per pagarsi cure, energia, cibo, mentre a loro tocca esportare beni totalmente svalutati dal mercato e dalle Borse speculative che sono in mano a quei ricchi che prima gli portano via le risorse a prezzi stracciati e poi gli prestano il denaro per sostenersi. Sono modelli coloniali talmente radicati che nessun governo occidentale, di destra o di pseudo sinistra, li ha mai messi davvero in discussione (altro che Piano Mattei). Una connivenza che rende poco credibili certe nostalgie “liberali” per una fantomatica “cooperazione multilaterale” che in realtà ha sempre visto una parte di mondo stravincere e un’altra soccombere (ne scrive anche Alessandro Volpi nella sua rubrica di questo numero).

Lo strozzinaggio colpisce inevitabilmente anche la capacità dei Paesi indebitati di far fronte alla catastrofe climatica in atto (e che Trump nel suo sconfortante e messianico discorso inaugurale della 47esima presidenza non ha mai nominato). Persino il capo economista della Banca Mondiale, Indermit S. Gill, ha detto che è venuto il momento di “affrontare la realtà”. “I Paesi più poveri che si trovano in difficoltà per il debito -ha tiepidamente scritto nell’ultimo International debt report- hanno bisogno di una riduzione del debito se vogliono avere una possibilità di prosperità duratura”. L’arcivescovo anglicano di Città del Capo, Thabo Makgoba, è stato meno diplomatico e più obiettivo nella descrizione della dinamica vittima-carnefice: “Il debito sta soffocando i Paesi del Sud globale, negandoci quanto necessario per la salute e l’istruzione. Per favore, lasciateci respirare”.

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L’attivista dei movimenti sociali Ben Phillips (autore del libro-manifesto “How to fight inequality”) ha invitato però su Inter Press Service a un po’ di ottimismo. Il Sudafrica quest’anno è la prima presidenza africana del G20 e, osserva Phillips, avrebbe portato “con successo il tema al centro della diplomazia economica globale”, promuovendo “soluzioni sostenibili per affrontare gli elevati deficit strutturali e le sfide di liquidità ed estendere la riduzione del debito alle economie in via di sviluppo”. L’altro motivo di ottimismo secondo Phillips riguarda i movimenti legati al Giubileo, che sono in grande fermento. “La sola diplomazia intergovernativa, per quanto ben giocata, non potrà mai rompere gli squilibri di potere della finanza globale”. La partita però è durissima e lo scenario internazionale riesce a precipitare ogni giorno. Debito e crisi climatica dovrebbero essere le priorità, mica Panama o i satelliti privati del “Fascista su Marte”. Anche perché a dicembre saranno dieci anni dalla firma dell’Accordo di Parigi sul clima. Ne sembrano passati cento. Ma all’indietro.

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