Dylan da menestrello folk al rock elettrico, la sfida vinta di “A complete unknown”

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Gli esordi di Bob Dylan dal ’61 al ’65, dal folk all’elettrico, “Blowin’ in the Wind” e amori compresi. “A complete unknown” è un biopic ben focalizzato per una sfida impossibile vinta dal regista James Mangold e pure, con qualche riserva, da Timothée Chalamet, calato anima e corpo (e voce, ma ci ritorneremo) nello scontroso “irraccontabile” genio di Duluth, folletto adoratore di Rimbaud, Nobel per la letteratura ma assente alla cerimonia di premiazione causa “impegni presi in precedenza”, stavolta eccezionalmente pronto, coi suoi 84 anni, a collaborare, sovrintendere, vagliare e alla fine vidimare 141 minuti di felice e, per buona parte del pubblico, nostalgico-emozionale immersione nel mood musicale e sociale dei primi anni Sessanta.

Un’impresa, perché Dylan è davvero, paradossalmente, un completo sconosciuto (“a complete unknown” è un verso di “Like A Rolling Stone”), una star che comunica da più di sessant’anni solo con note e poesie, gemme incastonate nella storia musicale del Novecento e oltre. Lì c’è tutta la sua vera biografia e nessuno era andato oltre il documentario (Scorsese magnificamente con “No Direction Home” e prima Don Pennebaker con “Don’t look back”, entrambi sui primi, miracolosi fulgori dylaniani), solo Todd Haynes nel suggestivo “Io non sono qui” del 2007 aveva tentato di ricostruirne le molte vite e i relativi tempi affidandoli a diversi personaggi e situazioni, musicali ed esistenziali, tipo i periodi del Dylan attore e cantante country in “Pat Garret e Billy Kid” di Peckinpah (1973, una delizia) o “cristiano rinato” a cavallo tra Settanta e Ottanta.

Da menestrello a leggenda

“L’America stava cambiando. Avevo un senso del mio destino e cavalcavo quei cambiamenti”. Così in “Chronicles” Robert Allen Zimmerman, in arte e forever Bob Dylan, ricorda i suoi luminosi e intimamente oscuri primi anni newyorchesi, da menestrello misterioso del folk acustico engagé che vende mille copie del primo album al ventiquattrenne totem musicale del Novecento convertito alla rockeggiante chitarra elettrica. Per molti un tradimento, degno dell’epiteto di Giuda regalato da un ex fan integralista. In mezzo pietre miliari sgorgate da un pulsante demone creativo, gli album “The Freewheelin’ Bob Dylan” nel ’63 e un anno dopo “The Times They Are a-Changin”. Una congiuntura musicalmente astrale per un ragazzo spuntato dai margini, insofferente verso gli obblighi sociali da personaggio pubblico e involontario protagonista del circo mediatico. Con addosso l’etichetta di “Leggenda, Icona, Enigma (Buddha in Abiti Europei era la mia preferita)”, ha raccontato beffardo sempre in in “Chronicles”. Bob vedeva, Bob sapeva, le lotte per i diritti civili, i germogli della contestazione, una generazione che spera, un’America wasp (white, anglo-saxon, protestant) che spara, in Vietnam e ai neri.

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Mangold non svolazza su territori inaccessibili a caccia di un ragazzo che ama il suo guscio e per di più mette in giro mille storie sulla sua adolescenza, peregrinazioni a Phoenix, il lavoro in un negozio di cianfrusaglie, in un circo, poi “trovo lavoro come carburatore alle gare di hot-rod” (cfr “No Direction Home”). “A complete unknown” fa perno sulla musica, regala brividi con le canzoni, quelle miliari e poi “Highway 61 revisited”, “Mr. Tambourine man”, “Farewell Angelina”, dà il meglio immergendosi insieme a Dylan nel contesto politico-musicale dell’epoca, sulla scorta del libro “Dylan goes Electric” di Elijah Wald, pubblicato nel 2015 con approvazione del diretto interessato, e ora riproposto da Vallardi col titolo “Il giorno in cui Bob Dylan prese la chitarra elettrica”, ovvero lo scandalo del Folk Festival di Newport del ’65. Quando il suo mentore Pete Seeger, nume del folk, attivista, bandiera della sinistra, ostinatamente fedele all’armonica, alla chitarra acustica e al banjo, cercò accoratamente di dissuaderlo dal presentarsi sul palco in versione rock (“Tu puoi portare al folk, alla nostra musica popolare i giovani, non buttare via l’occasione”) e Bob rispose con un paio di canzoni rock e suono pesante, fornito dalla sua chitarra elettrica e dalla band d’accompagno con Al Kooper e Mike Bloomfield. Il Dylan che da pischello si disegnava – sul retro di un album del suo mito Woody Guthrie – in cammino verso New York col cartello “Destinato alla gloria” e alla fine della strada c’era proprio Woody, ecco, quel Dylan non c’era più, avanti un altro Bob e altri capolavori, come l’album “Bringing It All Back Home”, capolavoro e sigillo della svolta elettrica.

A complete unknown, immagine dal trailer ufficiale

Appena arrivato dal Minnesota a NY, nel ’61, era andato al New Jersey Hospital a trovare il quarantanovenne Woody (Scott McNairy), colpito da una grave malattia neurodegenerativa e accudito in quel momento dall’amico Pete Seeger (lo interpreta Edward Norton, rimanendo sempre due spanne sopra il resto del cast). È il Dylan stregato dal Guthrie che sulla Gibson ha scritto “questa macchina uccide i fascisti”, che ha cantato e lottato contro ogni vento reazionario, l’autore di “This land is my land”. In quel momento l’indomito leone dell’altra America sembra passare il testimone a un ragazzino smilzo pronto, dl lì a poco, a mostrarsi consapevolmente incazzato, in “Masters of war”: “Tutti soldi che hai guadagnato/ Non ricompreranno mai la tua anima/ E spero che tu muoia/ E la tua morte arriverà presto/ Seguirò la tua bara/ Nel pallido pomeriggio/ E guarderò mentre ti abbasseranno/ Giù nel tuo letto di morte/ E starò sulla tua tomba/ Finché non sarò sicuro che sei morto”. Poi sarà il tempo di un altro Dylan, inafferrabile Proteo anche nell’amore, parola da relativizzare al pari di tutto il resto trattandosi di un uomo fedele a questa sua massima: “L’unica verità sulla terra è che non c’è verità”. Ecco, Bob e le donne.

Dylan e le donne

Il film si chiude sulle contestazioni al Dylan elettrico del luglio ’65, tre mesi dopo il cantante sposava Sara Lownds, con lei avrebbe avuto quattro figli. Nei precedenti anni newyorchesi si era sentimentalmente legato all’italo-americana Suze Rotolo, in “A complete unknown” ha il nome cambiato in Sylvie Russo (la interpreta Elle Fanning) per volontà di Dylan e rispetto verso Suze, scomparsa nel 2011. Una storia di alti e bassi con la figlia di Mary e Pietro, sindacalisti e comunisti, sempre più eccentrica, dopo periodi di forte passione, rispetto al mondo di Bob, per contro in grande sintonia artistica con Joan Baez (le dà piglio assai bene Monica Barbaro), un altro monumento del folk politico, presto destinata a diventare la sua compagna in un percorso accidentato – e per Baez, parole sue, “demoralizzante” – fino all’arrivo di Sara Lownds.

Nei primi tempi era stata Joan a dargli spazio nei concerti, ruoli che si sarebbero invertiti in seguito e “A complete unknown” fa capire quanto fosse difficile trovare uno spazio affettivo con un musicista “posseduto”, tra notti e giorni passati a scrivere, comporre, cantare. Suze compare stretta a Dylan sulla copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan”, è una ragazza di temperamento, esuberante e abbastanza lontana dalla caratterizzazione di Elle Fanning, di suo una biondazza made in Usa talvolta bamboleggiante e sognatrice che Dylan ridimensiona citando la battuta di Bette Davis in “Perdutamente tua”, un film che avevano visto insieme: “Non andiamo a chiedere la luna. Abbiamo le stelle”. Ma per saperne di più su Mr. Zimmerman e l’universo femminile tra biopic e realtà consigliamo la lettura dell’articolo “Vittime, rivali, frustrate. Eppure Suze Rotolo e Joan Baez erano tutt’altro”, firmato in lucysullacultura.com da Paola De Angelis, conduttrice di “Sei Gradi” su Radio3.

E il divo Timothée Chalamet, sempre abile a barcamenarsi tra film d’autore (“Don’t look up” di Adam McKay, “Bones & All” di Luca Guadagnino) e di cassetta (“Dune”, “Wonka”)? Un manichino immusonito, a parte rari sguardi dolenti nonostante l’immersione pluriennale nell’universo dylaniano per cavarne i giusti stimoli. Se la cava invece alla grande da cantante e musicista rifinito, dopo aver lavorato con un vocal coach, un insegnante di chitarra, un dialect coach, un movement coach e un armonicista. Vabbè. E complimenti per il coraggio. Idem per Monica Barbaro-Baez, sorprendente nei vocalizzi tipici della folksinger, mentre Chalamet non sfoggia il tono graffiato e rugginoso di Dylan. Ok, ma, con tutti i generatori di musica e voci tramite Ai e i tool di clonazione che girano, viene qualche malizioso sospetto.

In “A complete unknown” Mangold si è affidato per la fotografia al solito Phedon Papamichael e ha pure sceneggiato con l’aiuto di Jay Cocks e, per una battuta, di Dylan: in una scena in cui Bob e Sylvie litigano, lei lamenta l’idea di tornare da un viaggio europeo per “vivere con un misterioso menestrello”, e Dylan, il cui primo album è fallito, ribatte: “I menestrelli misteriosi vendono più di mille dischi. Forse semplicemente ti conviene non tornare affatto”. Il solito mostro di simpatia. Il regista (sua la direzione dell’ultimo Indiana Jones) già si era cimentato nel biopic musicale con “Quando l’amore brucia l’anima-Walk the line” dedicato al novelliere in musica e principe del country Johnny Cash, puntualmente presente – lo interpreta Boyd Holbrook – in “A complete unknown”. Il film è costato 125 milioni di dollari, distribuisce Disney.



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