Il Giappone sta per intaccare le sue riserve d’emergenza di riso

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Venerdì il ministro dell’Agricoltura del Giappone, Taku Eto, ha annunciato che per la prima volta il governo farà ricorso alle riserve di emergenza di riso per ridurne il prezzo, arrivato ai massimi di sempre. Il riso è un alimento centrale per il Giappone, nonché uno dei pochi per cui il paese è autosufficiente (è cioè prodotto nell’arcipelago quasi tutto quello che consuma). Dal 1993 il governo giapponese conserva quasi un milione di tonnellate di riso in riserve di emergenza, da usare in caso di carestie o disastri naturali.

Il Giappone consuma oltre 8 milioni di tonnellate di riso ogni anno, con una media di poco superiore ai 74 chili l’anno per persona, fra le più alte al mondo, ma comunque molto inferiore a quella cinese (circa 130 kg) o indiana (105 kg). Dalla fine degli anni Sessanta il governo giapponese ha imposto pesanti dazi sull’importazione di riso dall’estero, di fatto limitando gli acquisti possibili ogni anno a 100mila tonnellate. L’idea era di garantire l’autosufficienza del paese per un alimento centrale nella dieta della popolazione nonché importante a livello culturale. Da allora il Giappone ha smesso di comprare riso all’estero e in Giappone i prezzi sono scollegati dalle quotazioni internazionali.

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Ci sono stati un paio di casi in cui il governo ha dovuto autorizzare importazioni, in corrispondenza di raccolti particolarmente scarsi: è successo una prima volta negli anni Ottanta e una seconda nel 1993. Nel 1993 un inverno particolarmente freddo mise in difficoltà le coltivazioni, portò a una carenza di riso nei negozi e nei supermercati, a prezzi molto alti e a qualche tensione sociale. Si decise quindi di istituire una riserva di emergenza: il governo avrebbe comprato 200mila tonnellate di riso ogni anno, da conservare per cinque anni. Alla scadenza del quinto anno 200mila tonnellate sarebbero state vendute per usi non alimentari, in modo da mantenere costanti le riserve intorno al milione di tonnellate (oggi sono 910mila tonnellate). Quelle riserve sarebbero state intaccate solo in caso di carestie o di disastri naturali. Furono utilizzate l’ultima volta nel 2011 dopo l’incidente nucleare di Fukushima.

La raccolta del riso a Sasayama nel 2021 (Buddhika Weerasinghe/Getty Images)

In queste settimane il prezzo del riso in Giappone ha toccato nuovi massimi, superando i 153 euro per un sacco da 60 chilogrammi (la misura standard): è un ulteriore consistente incremento rispetto allo scorso anno, quando secondo i dati governativi era arrivato al record di 148 dollari, con un aumento del 55 per cento rispetto al 2023. Nell’estate del 2024 c’è stata carenza di riso in negozi e supermercati, causata da un cattivo raccolto nel 2023, dagli incentivi concessi ad alcuni agricoltori per mantenere incolti i campi e da una corsa agli acquisti da parte di ristoranti e singoli utenti. In alcuni negozi erano stati imposti limiti all’acquisto: al massimo 5 chili per persona.

Allora il governo non aveva autorizzato l’uso delle riserve di emergenza, considerando la situazione non particolarmente grave. In questi mesi però il prezzo del riso ha influenzato in modo consistente l’inflazione, che a dicembre è stata del 3,6 per cento su base annua. 7-Eleven, la maggior rete di supermercati del paese, ha aumentato i prezzi di 37 prodotti a base di riso: gli onigiri sono più cari del 20 per cento.

Una palla di riso per un onigiri, nel 2024 a Tokyo (AP Photo/Yuri Kageyama)

Il ministro Eto ha deciso di ricorrere alle riserve di emergenza per abbassare i prezzi, lasciando intendere che l’attuale aumento e una certa penuria dell’alimento potrebbero essere dovuti a speculazioni da parte degli stessi produttori, che avrebbero interesse a far crescere i prezzi. Il governo si è però impegnato a ricomprare entro un anno la stessa quantità che preleverà dalle riserve. L’aumento dei prezzi del riso in Giappone è in netta controtendenza rispetto alle quotazioni mondiali: il riso bianco thailandese, considerato lo standard sul mercato asiatico, è ai minimi degli ultimi anni dopo che l’India, maggior produttore mondiale, ha ripreso le esportazioni temporaneamente interrotte durante una fase di minor produzione.

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