Ci sono delle conseguenze simboliche: l’impennata dei prezzi dello sciroppo d’acero canadese, del guacamole, ma anche della tequila e del mezcal provenienti dal Messico, che negli ultimi anni hanno rimpiazzato rum e cognac.
“Farà male? Sì, forse. Ma renderemo di nuovo grandi gli Stati Uniti, e vi assicuro che varrà il prezzo da pagare. Finalmente il nostro paese è gestito con buon senso, e i risultati saranno eccellenti”. Sono queste le parole di Donald Trump, postate sul suo social network Truth domenica 2 febbraio, riconoscendo che i dazi del 25 per cento imposti il giorno precedente a Messico e Canada avrebbero comportato un aumento dei prezzi per i contribuenti statunitensi.
In una conferenza stampa tenuta al suo ritorno a Washington dopo un fine settimana in Florida, il presidente ha assicurato che avrebbe comunque parlato con il primo ministro canadese dimissionario Justin Trudeau e con il governo messicano.
Sicuramente, i danni maggiori li subiranno Messico e Canada, più vulnerabili in questa guerra asimmetrica a causa delle più “piccole” dimensioni delle loro economie. I consumatori statunitensi ne risentiranno, anche se un aumento delle tasse del 25 per cento sugli avocado non comporta un aumento automatico dello stesso valore nei supermercati: è il prezzo di importazione a essere tassato, non quello al dettaglio.
Guerra tecnocratica e finanziaria
Ma non è questo il problema principale. Le vere preoccupazioni riguardano l’industria automobilistica e l’interruzione delle catene del valore dell’intero comparto, fortemente integrato in tutto il Nordamerica. I pezzi di ricambio viaggiano avanti e indietro attraverso il confine, in alcuni casi più volte, prima di essere venduti come veicoli assemblati negli Stati Uniti. Donald Trump, quindi, sta di fatto lanciando una guerra finanziaria contro i produttori americani che vorrebbe proteggere.
Secondo il Wall Street Journal, il Messico fornisce circa il 42 per cento dei pezzi di ricambio per le auto degli Stati Uniti, il Canada quasi il 13. “Dato che questi componenti circolano ripetutamente tra i tre paesi, è probabile che i costi dei dazi doganali aumentino ben oltre il 25 per cento”, spiega il quotidiano economico statunitense. Secondo le stime degli analisti di Rolfe Research, il prezzo delle auto, che a dicembre 2024 era in media di 46.200 dollari (45.060 euro), potrebbe aumentare di circa tremila dollari.
In ogni caso, sono in pochi a difendere questa guerra commerciale, lanciata per motivi che hanno a che fare con altro – la crisi del fentanyl – contro i due vicini e maggiori partner commerciali in un momento in cui gli Stati Uniti godono di forte crescita e piena occupazione. Per molto tempo, molti hanno creduto che Donald Trump non avrebbe davvero portato a termine le sue minacce, comprese alcune delle persone che fanno parte della sua squadra.
In una nota pubblicata un anno fa, l’attuale segretario al tesoro Scott Bessent parlava di gravi errori di analisi: “Crediamo che Trump perseguirà una politica del dollaro debole piuttosto che implementare i dazi, che andrebbero a rafforzare la valuta. Non sarebbe un buon punto di partenza per una rinascita industriale. Wall street è a favore di un dollaro forte, basato sui dazi, e noi non siamo assolutamente d’accordo”.
Oggi, però, le previsioni di Bessent si stanno rivelando completamente sbagliate. Come è spesso accaduto finora, sono stati i mercati ad avere ragione nelle loro analisi. E il capo della Tesla Elon Musk, che di solito dice la sua su tutto, non ha detto una parola sull’argomento.
La comunità imprenditoriale, invece, è preoccupata. “Il presidente ha ragione a concentrarsi su problemi importanti come la crisi al confine e l’epidemia di fentanyl, ma l’imposizione dei dazi non risolverà questi problemi. Così non farà altro che aumentare i prezzi per le famiglie statunitensi e colpire le catene di approvvigionamento”, ha sottolineato John Murphy, vicepresidente della camera di commercio degli Stati Uniti in un comunicato.
Il problema, però, è che gli argomenti a favore dei dazi hanno finalmente preso piede. In parte perché la politica commerciale del primo mandato di Trump (2017-2021) non ha fatto troppi danni, un po’ perché l’amministrazione Biden ha mantenuto una retorica protezionista fatta di sussidi massicci (per microprocessori ed energia), di cui l’ultimo atto è stato il divieto di acquisizione dell’acciaio statunitense da parte dell’ azienda giapponese Nippon Steel e la tassazione al cento per cento dei veicoli elettrici cinesi.
La Casa Bianca si è mossa immediatamente per pubblicare le parole dell’ex segretaria al tesoro di Joe Biden, Janet Yellen, che nel maggio 2024, dopo i rialzi tariffari decisi dal presidente in carica aveva commentato: “Non credo che i consumatori americani vedranno un aumento significativo dei prezzi”.
Jason Furman, professore di economia ad Harvard ed ex consigliere di Barack Obama, si dice angosciato: “È un peccato che l’amministrazione Biden abbia avanzato queste argomentazioni. Ma i dazi di Biden riguardavano 18 miliardi di dollari di importazioni, quelli di Trump 1.400 miliardi di dollari”, spiega Furman.
È vero, ma quelle scelte dell’ex presidente hanno contribuito a rendere più popolari i dazi tra gli elettori sia democratici sia repubblicani.
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