Opinioni | La giustizia tra il dire e il fare

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Proclamare in teoria una cosa, e poi — per incapacità attuativa o per calcolo interessato — produrre nella realtà l’esatto contrario per i cittadini: nell’approccio del governo Meloni-Nordio ai temi della giustizia esiste una questione morale, ma diversa da quelle cicliche dei tre decenni scorsi, e persino più insidiosa delle commistioni affaristiche di questo o quell’esponente. Ed è un peccato che l’inflazionata rappresentazione di un eterno derby tra magistratura e politica/avvocatura, quasi la giustizia fosse affare solo di addetti ai lavori, oscuri ai cittadini la percezione di quanto invece la questione morale dello scarto tra dire e fare incida direttamente sulla vita concreta delle persone. Quattro esempi, colti dalle recenti relazioni dell’Anno Giudiziario, possono essere istruttivi.

Dappertutto viene segnalato che il numero delle archiviazioni di persone indagate si è letteralmente dimezzato: succede perché i pm hanno fatte meno richieste di archiviazione? No, accade perché, pur fatte, sono rimaste per mesi ammassate negli armadi. E sono rimaste ammassate negli armadi perché il nuovo applicativo informatico ministeriale App, intempestivamente imposto sulle archiviazioni come primo gradino obbligatorio da un Ministero della Giustizia sordo a tutti gli avvisi di débâcle, ne ha congelato a lungo lo «scarico» nelle cancellerie a causa del proprio malfunzionamento annunciato, denunciato, conclamato eppure negato dai pervicaci comunicati «va tutto bene» di via Arenula, di colpo peraltro comicamente appassiti alla luce della (pur riluttante) tardiva ammissione di «criticità» proprio da parte del Guardasigilli. Con il paradossale effetto che nei mesi scorsi molte migliaia di persone in tutta Italia sono rimaste più a lungo del dovuto alle prese con le conseguenze negative della pendenza di un procedimento penale per colpa proprio di quella politica sempre pronta a solennemente pontificare quanto sia di per sé già una pena essere sottoposti a un procedimento penale.




















































Secondo esempio arriva dalla perdurante contabilità allarmante delle carenze di personale, più ancora che tra i magistrati, soprattutto nei cancellieri e ufficiali giudiziari. Uffa che noia? Eh no, prova a far comprendere ad esempio la relazione del presidente Ondei di un distretto (Milano) che pure nel complesso vanta performance europee: stanti le percentuali di scopertura che elenca, «per eseguire uno sfratto un cittadino deve aspettare 2 anni, o un anno per eseguire un pignoramento al fine di avere quanto una sentenza ha riconosciuto che gli spetti».

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Terzo esempio: siccome a Roma i giudici del Tribunale sull’immigrazione avevano preso decisioni sgradite al governo sulla convalida o meno dei trattenimenti di migranti nel centro delocalizzato in Albania, il governo a costo zero ha spostato per legge alcune competenze alle già gravate Corti d’Appello. Gravissimo come precedente di sistema, ma non indolore nemmeno per i miopi che sorvolino sui principi e tengano solo al proprio particolare: «Infatti subiranno inevitabilmente un consistente ritardo nella trattazione e definizione le cause civili ordinarie non prioritarie, che sono quelle che interessano molti cittadini, a Milano in particolare le cause di famiglia e minori, separazioni e divorzi».

Il quarto esempio viene dalle carceri. Nel luglio 2024, quando il ministro Nordio vantò che l’appena varato suo decreto legge avrebbe semplificato taluni meccanismi e così notevolmente diminuito il sovraffollamento carcerario «senza cedimenti» a indulti o amnistie, tutti gli fecero notare che in realtà il modo di fare quella modifica di legge nulla avrebbe mutato, se mai qualcosa avrebbe complicato. Risultato: in quel luglio 2024 i detenuti erano 61.510 (in 47.003 posti disponibili su 51.209 teorici), dopo sette mesi sono saliti a 62.010 (in 46.852 posti disponibili).

Ecco perché replicare stancamente la disfida d’Albania, gettare la maschera dell’intento punitivo dei magistrati ormai persino dichiarato dietro la separazione tra giudici e pm, e persino scappare sino a oggi dallo spiegare in Parlamento perché per liberare il torturatore capo della polizia libica si sia fatta carta straccia degli impegni dell’Italia con la Corte Penale Internazionale, conviene forse al governo comunque più di confrontarsi con l’eventualità che, prima o poi, qualcuno unisca i puntini dei vari proclami in tema di giustizia, tiri una riga, tragga una somma e ne chieda conto a chi aveva propagandato il contrario.

4 febbraio 2025



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